Una meridiana per esternare la nostra passione per l’arte.

Quella che vedete è la meridiana che io e mio marito Marco abbiamo fatto dipingere sulla parete di casa nostra e che abbiamo inaugurato lo scorso 5 giugno. Un’opera imponente, non solo per le sue dimensioni (12 metri di lunghezza per quasi 2 metri di altezza), ricca di simbologia e di significati. E’ una gioia per gli occhi, un regalo che abbiamo fatto al paese e a tutte le persone che passano da qui, che vi posano lo sguardo anche solo per un secondo.

Ritengo che non ci si debba fermare all’apparenza, perché osservare il dipinto non basta, ma credo che sia giusto motivare la scelta delle varie immagini. L’opera va spiegata per essere meglio compresa, per avvicinarsi al nostro pensiero, per entrare nel nostro mondo.

Dentro c’è un pezzo di vita e di storia: nulla è lasciato al caso, tutto ha un senso ben preciso. E’ con orgoglio che raccontiamo quello che un bravissimo artista locale è riuscito a rappresentare, di come ha concretizzato i nostri pensieri trasformandoli in pennellate di colore, di come ci ha messo il cuore, anche lui con noi.

Partendo dalla parte centrale, in basso troviamo due grandi fasci di spighe e papaveri, simboli del nostro territorio e della Dea Demetra, protettrice dei campi e dei raccolti. Nella mitologia si narra che lei sia riuscita a ritrovare la serenità dopo la scomparsa della figlia sorseggiando infusi prodotti con i fiori di papavero. Per questo motivo viene indicato come il fiore della consolazione, oltre al suo significato di semplicità. Il grano invece rappresenta la rinascita: sappiamo bene che il chicco deve essere interrato per dare frutto, deve morire per poi rinascere e rappresenta quindi il passaggio dell’anima dall’ombra alla luce. E’ simbolo di fecondità, di prosperità e di abbondanza. Noi l’abbiamo inteso come segno di ripartenza dopo il terribile periodo della pandemia, con la speranza di ricominciare più forti di prima.

Ancora più al centro troviamo un borgo: questo termine significa “città fortificata” e richiama quindi il concetto di protezione, che sicuramente troviamo tra la mura di casa. Più importante però è associarlo al concetto di borghesia, la classe sociale che ha decretato la decadenza della nobiltà. I borghesi si erano “fatti da soli”, perché erano riusciti a guadagnarsi da vivere senza dipendere da nessuno: parliamo di artigiani, commercianti, mercanti e professionisti, che potevano permettersi un certo tenore di vita grazie alle loro abilità. Erano personaggi culturalmente innovativi, quasi rivoluzionari, con gusti diversi dagli altri ceti sociali. Diciamo che in questo noi ci ritroviamo molto.

Sempre nel blocco centrale, sono rappresentati rami di olivo e di limoni, il nostro biglietto da visita. Il ramoscello d’olivo portato dalla colomba dopo la fine del diluvio universale è simbolo di rigenerazione e di pace, della riconciliazione di Dio con l’uomo. Inoltre è segno di eternità perché è una pianta forte, capace di resistere alle peggiori condizioni metereologiche, che sa superare le difficoltà e quindi simbolo di vita. L’immagine della pianta di limone invece viene associata a quella della Vergine Maria per il suo dolce profumo, emblema di salvezza per le sue proprietà curative e simbolo di fedeltà amorosa, per la sua capacità di produrre frutti tutto l’anno. In alto poi si trovano due putti all’interno di un tino, uno con le spighe in mano e l’altro con i grappoli d’uva, chiara allegoria religiosa.

Ci sono poi tre figure ben integrate nell’opera, tre animali con una storia particolare. Il gallo che rappresenta la gioia, la luce, che con il suo canto dichiara la propria presenza e allontana gli spiriti maligni. Il pettirosso, uccellino grazioso, colorato, dal canto armonioso, messaggero dell’inverno è simbolo di speranza, di ottimismo e della vita che resiste alle difficoltà grazie al suo carattere combattivo e temerario. La lucertola, posta sull’angolo della finestra all’estrema destra, considerata da sempre un animale prodigioso perché in grado di rigenerare la coda, ci insegna che nella vita bisogna adattarsi per fronteggiare le difficoltà. La troviamo anche sul pilastro che sorregge la meridiana di Ponte Vecchio a Firenze, collegamento tra una riva e l’altra dell’Arno: la leggenda narra che sia un portafortuna e chi la vede farà un buon viaggio.

Passando poi alla parte esterna, sulla destra, ad est dove sorge il sole troviamo la Giovane: forte della sua età e di conseguenza piena di energia, quella che serve per cominciare bene la giornata, col viso rivolto dalla parte opposta e quindi sprezzante, altezzosa, consapevole della sua natura, rappresentata con il seno scoperto come simbolo di maternità. Dalla parte ovest, in contrapposizione troviamo il Vecchio saggio: la sua vita sta giungendo al termine come il sole che tramonta, e il libro che tiene in mano prova il fatto che ha imparato molto durante il suo percorso. Vi è riportato un versetto dell’Inferno di Dante, omaggio ai 700 anni dalla sua morte, per enfatizzare il poco tempo rimasto a sua disposizione.

Tornando dalla parte destra, troviamo l’Angelo della luce e all’opposto il Diavolo ad impersonare le tenebre, attorniato dal serpente che ricorda il peccato originale, le tentazioni, che si trova però vicino all’edera, che i Celti consideravano una pianta sacra legata proprio al culto del serpente. Secondo questo popolo simboleggiava l’immortalità, forse perché è un rampicante sempreverde e resistente, ed oggi viene spesso usata nei bouquet delle spose come simbolo dell’amore fedele. La mitologia ci riporta al Dio Dioniso (o Bacco), i cui emblemi sono la vite e l’edera in quanto non era solo il Dio del vino e dei baccanali, ma era anche conosciuto come Dio dell’innocenza: la leggenda vuole che poco dopo la sua nascita, la madre venne colpita da un fulmine scagliato contro di lei da Zeus, e Dioniso riuscì incredibilmente a salvarsi grazie ad una pianta di edera comparsa dal nulla che lo avvolse per proteggerlo dalle fiamme. Il fatto che sia stata posizionata proprio vicino al diavolo e al serpente, significa che il bene vince sempre contro il male.

Per quanto riguarda la parte tecnica, non voglio dilungarmi troppo. Sappiamo tutti che la meridiana è un orologio solare e lo gnomone, la sua lancetta, con la sua ombra indica l’Hora Solis. Di conseguenza, quando ci troviamo nell’ora legale, va aggiunta un’ora più i minuti di sfasamento in base al mese in cui ci troviamo, indicati nella legenda sulla destra. Oltre alle linee che fissano le ore, sono indicati anche i tropici e l’equatore con i relativi segni zodiacali, i solstizi e gli equinozi per identificare le stagioni. La linea del mezzogiorno è indicata da una campana e ci tengo a spiegarne il motivo: è il 7 ottobre 1571, gli Stati cristiani coalizzati nella Lega Santa vincono la Battaglia di Lepanto contro l’Impero Ottomano; questa vittoria segnò la salvezza della Cristianità in Europa e il Papa, venuto a conoscenza del fatto proprio a mezzogiorno, per divulgare la notizia il più velocemente possibile, ordinò di suonare le campane a festa. Da quel giorno, tutti i giorni a mezzogiorno vengono suonate le campane. Mi piace anche ricordare una motivazione legata più alle tradizioni del nostro territorio, quando le massaie uscivano sull’aia per suonare la campana che richiamava gli uomini dai campi, per avvisarli che il pranzo era pronto.

La meridiana racchiude il desiderio di esternare la nostra passione per l’arte, di portare fuori in qualche modo quello che c’è dentro casa, ma tutte le sue simbologie richiamano anche la speranza di uscire presto dalla pandemia, perché il Covid ci ha colpito pesantemente e ci ha segnati profondamente. Emerge prepotente la voglia di ripartenza, di riscatto, la necessità di adattarsi e di resistere, l’auspicio di tempi migliori, un inno alla vita. Riassumendo, perché abbiamo fatto tutto questo? Perché siamo dei folli, e ne siamo orgogliosi.

Chef Galliano: “Qualità, ricerca e accoglienza sono gli ingredienti della mia cucina”.

Incontro Galliano dopo un periodo difficile per la ristorazione: la voglia di ripartire è tanta, tutto lo staff ne sente la necessità. Il cibo è gioia, appaga il corpo e lo spirito, ma quando incontri uno chef come lui, così attento alle materie prime, alla loro lavorazione, che racconta al cliente tutta la storia che c’è dietro ad un piatto, capisci che in realtà c’è molto di più e non puoi non apprezzare il suo lavoro.

Mi chiamano in cucina: tre chef mi accolgono come fossi di casa. Hanno appena creato un nuovo piatto per il quale attendono l’approvazione del capo. Nel frattempo mi raccontano aneddoti del loro lavoro, e subito traspare competenza e professionalità. Ascolto impressionata, e mi rendo conto di quanta fatica ci sia dietro, di quanto poco apprezziamo il “dietro le quinte” limitandoci, come clienti, a deliziare il nostro palato.

Diventare chef era il tuo sogno da bambino?

“Diciamo di sì. Ho un ricordo di quando avevo 4-5 anni: l’ovetto sbattuto con lo zucchero, una sorta di zabaione che mi faceva sempre mia mamma. Stando in cucina con lei, con le mie nonne, con mia zia, vedendole cucinare, è nato tutto così. Quando è arrivato il momento di decidere che scuola fare dopo le medie, ho iniziato ragioneria su insistenza di mio padre, un anno in cui non ho prodotto niente, poi su insistenza mia papà ha ceduto e mi ha iscritto alla Scuola Alberghiera a Bardolino. Era il 1984, la scuola durava tre anni e alla fine del primo ho iniziato subito a fare le stagioni, anche lontano, la prima a Madonna di Campiglio. In realtà il mio sogno da bambino era andare a pesca, ma una volta realizzato che con la pesca sportiva non si sopravvive, sono andato a fare il cuoco”.

Quanto sono importanti le materie prime per la realizzazione dei tuoi piatti?

“Adesso sono fondamentali, però c’è stato un percorso: ho iniziato a fare questo lavoro quando l’importanza della materia prima non era essenziale. Parliamo di metà degli anni ’80: era appena arrivata la nouvelle cuisine, onda che è durata qualche anno fino ai primi anni ’90, che andava a dare una spallata ad una cucina molto più classica, quella degli anni ’70-’80, una cucina opulenta (scaloppina al limone, filetto al pepe verde, pennette al salmone). La nouvelle cuisine era una ventata nuova, che poi è stata anche denigrata, però in realtà portava già delle novità: c’era un’attenzione all’impiattamento, all’estetica e anche alle proporzioni delle cose, mancava ancora però nella ristorazione di base questa attenzione alle materie prime. Nel corso degli anni il tuo percorso di porta pian piano a ricercare, ad andare oltre alla materia prima. Adesso io ritengo di essere soddisfatto quando arrivo a conoscere personalmente chi produce la cosa, e spesso ci riesco lavorando con prodotti locali. Questo per me è un valore grande, il valore aggiunto: sapere chi fa le cose, vedere le sue mani, come lavora, capire, parlare con lui. Questo è fondamentale soprattutto quando vai a vendere e a proporre”.

Quali caratteristiche deve avere un piatto per essere aggiunto al tuo menu?

“Io dico sempre che un piatto perfetto dovrebbe essere composto da tre ingredienti: una base, un elemento caratterizzante e il tocco, a meno che non sia un piatto che deve rispecchiare per forza una certa tradizionalità. Ad esempio uno dei nostri piatti famosi, il classico risotto della tradizione veneta o del basso veronese, fatto con polpa di maiale tagliata a coltello, cotta nella pentola di rame, è un piatto che ha 100-200 anni, non saprei. La ricetta è immutata da generazioni e assolutamente non va toccata, nasce così e deve restare così. Altri piatti possono essere aggiornati, rivisti, comunque sono tre le cose su cui ci si deve concentrare. La cucina fatta di troppe interpretazioni a volte stona: o dall’altra parte c’è un mago di cuoco, un artista, sennò si rischia sempre di scimmiottare i grandi o di creare dei grandi pastrocchi”.

C’è un piatto che ti ha dato grandi soddisfazioni e uno che sogni di realizzare?

“Quello che ricordo volentieri è un risotto: avevo 25 anni e l’avevo chiamato Risotto dei Monti Lessini perché interpretava secondo me un territorio, che sentivo mio come veronese. All’interno aveva Tartufo Nero della Lessinia, Monte Veronese stravecchio e Spumante Durello, che andava a bagnare il riso durante la cottura. Questo piatto, che ho presentato ad un concorso a Isola della Scala, con mia grande delusione non fu selezionato per la finale. Io volevo vincere perché secondo me era un piatto fantastico, ma in compenso ottenni un premio dedicato al territorio che fu istituito in quell’edizione. Forte di questo premio, scrissi una lettera al Consorzio del Durello per metterli a conoscenza della mia creazione, e il Direttore Aldo Lorenzoni mi volle a tutti i costi portare in giro. Da lì tre edizioni del Salone del Gusto con la Camera di Commercio di Verona nello stand della Regione Veneto, poi varie fiere a Milano, nelle Marche, e il mio risotto divenne bandiera del territorio. Oggi è un piatto visto e rivisto, ma all’epoca eravamo all’inizio del percorso della territorialità, del “Km zero”. Per quanto riguarda le nuove realizzazioni, non sono uno che crea da zero: nel piatto ricerco l’equilibrio, l’aspetto tecnico, le cotture, questo secondo me è perfezione. Assemblare per il semplice gusto di farlo ha poco senso. Sogno un spaghetto al pomodoro fatto bene, che è la cosa più difficile da fare”.

La parola d’ordine della tua cucina è “ricerca”. Come trovi i prodotti migliori? Parti all’avventura o ti fai consigliare?

“C’è sempre un aspetto “culturale”: non si inventa niente, è già tutto creato, è tutto di fronte a noi, bisogna solo dire “questo prodotto merita, questo produttore ha creato qualcosa”. E’ necessario andare un po’ oltre all’aspetto della denominazione: possiamo parlare di Prosciutto di Parma, però sono tantissime le sfaccettature che stanno all’interno, partendo dalla provenienza delle carni o dai sistemi di stagionatura. Cerco l’originalità e la professionalità da parte del produttore. Internet aiuta tanto: a volte consulto dei siti, sono incredibilmente curioso, appena vedo una cosa che non ho mai provato la compro. Mi obbligo a farlo perché è giusto che sia così, questo crea interesse”.

Sei più chef tradizionale, innovativo o un mix di entrambe le cose?

“Tradizionale, perché in realtà scappo un po’ dalle modernità della televisione. Mi spaventano un po’ le nuove leve che arrivano al nostro lavoro alle prime armi, i ragazzini che hanno fatto la scuola alberghiera, che pensano che fare un piatto come l’ha fatto Cracco in televisione sia un po’ far cucina. In realtà non è così: bisognerebbe partire imparando tutti i tagli delle patate, imparare a fare la pasta e il pomodoro buono, capire cosa vuol dire qualità. La televisione ha un po’ drogato tutto questo ambiente. Se poi parliamo di innovazione, questa sta nel reinventarsi tutti i giorni, nel non accontentarsi mai, nell’essere molto critici. Mi spaventano anche i cuochi che pensano di aver fatto un bel piatto, perché per me un piatto ha sempre un difetto”.

Siamo negli anni del boom della cucina: grandi chef che approdano in tv, canali a tema, appassionati che sfondano sul piccolo schermo con i piatti della loro tradizione. Se avessi anche tu la possibilità di entrare in questo mondo, cosa porteresti?

“Un percorso meno da effetto scenico: un buon piatto della tradizione realizzato tecnicamente bene è già un piatto moderno. Io ho la fortuna di avere un confronto diretto con la clientela, per cui quando realizziamo qualcosa io capisco subito se il piatto va bene o va male, se deve essere aggiustato, te ne rendi conto con l’esperienza nel giro di poco tempo. Ci sono dei piatti che nascono bellissimi e buonissimi ma che nessuno ordina al ristorante”.

I grandi chef aprono ristoranti in giro per il mondo quasi fosse una cosa normale, ma quanto è difficile aprire e portare avanti un ristorante e soprattutto conquistare la clientela?

“La ristorazione vive di equilibri e di meccanismi che non sono sempre facili da capire, però io dico sempre che quando uno chef decide di aprire un locale dovrebbe porsi delle domande. Se gestisce anche il locale deve saper pianificare benissimo l’azienda: è importante trovare l’equilibrio, perché è giusto creare delle situazioni per accattivare la clientela, ma alla fine come tutte le aziende deve stare in piedi. Per più di vent’anni io sono stato chiuso in cucina, e soffrivo tantissimo perché impiegavo tempo, energia, cultura per preparare qualcosa e poi il cameriere di turno portava il piatto al cliente in sala e finiva tutto lì. Il vero ingrediente vincente in un piatto si chiama valore aggiunto: è l’atmosfera, è come presenti il piatto, come dai le spiegazioni, come lo contestualizzi, perché anche il miglior piatto portato ad una clientela ignara che viene solo perché ha fame, quando glielo metti davanti è buono e basta. Quando sono andato in sala e ho iniziato a girare per i tavoli, ho insistito molto su questo aspetto: dico sempre ai miei ragazzi in sala che ci sarà sempre qualcuno più bravo di noi, ma la nostra unicità sta nel fatto che sappiamo dare una presenza anche fisica dove andiamo a spiegare le cose, andiamo ad accogliere, è un valore che nella ristorazione avrà sempre maggior peso”.

Già. Quanto è bello ascoltare Galliano mentre ti racconta la storia della Tarte Tatin o della Pavlova, quando ti porta nei luoghi dove viene allevato il bestiame o nei vigneti in giro per l’Italia, un vero e proprio viaggio con la mente tra storia e tradizione.

Ultima domanda: gli chef devono soddisfare i gusti di tutti, ma si parla poco dei gusti dello chef. Qual è il tuo piatto preferito?

“Mangio tutto per definizione, non mi limito davanti a niente. A volte si mangia più con il contesto e con il cervello: una fetta di pane buono con un filo d’olio e uno spicchio d’aglio, servita su una terrazza che guarda il mare di Sorrento è il piatto più buono del mondo. Noi dobbiamo dare da mangiare al nostro cervello, non alla pancia. Comunque la mia merenda perfetta è schüttelbrot, speck tagliato a cubetti e gewürzgurken al cumino”.

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Charlie: “La soddisfazione più grande? Lo stupore sui volti dei bambini”.

Persona autentica Charlie, disponibile, ospitale, mi accoglie nella sua casa-museo dove custodisce gelosamente tutte le sue opere, e mi intrattiene con aneddoti sulla sua brillante carriera. Mi racconta del Leone d’Oro (di Venezia) che tiene in sala da pranzo, quasi fosse un normale soprammobile: “Non sono neanche andato a ritirarlo, me l’hanno portato a casa. Era il periodo in cui ricevevo premi ogni settimana”. Già, perché Charlie di premi ne ha vinti proprio tanti, dal primo premio assoluto per la pittura al “Grand Trophèe Ville de Nice” in Francia fino al Premio d’Onore alla Carriera assegnato dalla Città di Viareggio. Innumerevoli i luoghi che hanno ospitato le sue opere: Parigi, Edimburgo, Praga, Montecarlo, Bratislava, Nitra, Città del Vaticano, ma soprattutto Mosca, che gli ha rubato il cuore.

Il Sogno – Libero & Leggero secondo Charlie

Charlie va oltre: è un visionario perché dotato di un’immaginazione straordinaria, ci porta nel suo mondo colorato, ma si aspetta che ognuno possa rispecchiarsi nei suoi dipinti, che riesca a trovare un’interpretazione personale senza bisogno di dare spiegazioni. La sua idea di far entrare l’osservatore nell’opera l’ha concretizzata con l’imponente mosaico che ha costruito pezzo dopo pezzo nel salone di casa sua: due animali marini che fanno da cornice a degli specchi che ci rendono parte della scena, lavoro che ha richiesto ben otto anni di fatica.

Descrivi la tua arte in tre parole.

“Ricerca, aspirazione e filosofia. Ritengo che l’essere umano viva le sue peculiarità e le sue potenzialità solo al 10%”.

Quando è nato l’artista Charlie?

“Penso sia nato con il Charlie bambino, perché ho sempre portato avanti la mia voglia di fare. Ho delle opere di quando avevo 14 anni, quindi vuol dire che qualcosa già scarabocchiavo”.

A quali artisti ti sei ispirato?

“A nessuno in particolare, apprezzandoli e ammirandoli tutti quanti, ma nella mia arte non c’è nessun riferimento, né voluto e spero neanche occasionale”.

C’è un’opera famosa che porti nel cuore?

“Guernica di Picasso, perché è stata la rivoluzione dell’arte moderna, anche se c’erano già stati dei rivoluzionari prima di lui. Ha creato un contesto dove ha unito la pittura, che è una forma di lavoro, al pensiero, sottolineando le problematiche di quei tempi”.

I tuoi anni di lavoro sono stati suddivisi in tre periodi: sperimentale, onirico e filosofico. Quali sono le caratteristiche distintive di ognuno?

“Si inizia con la sperimentazione che per me è fondamentale perché diventa anche parte integrante dell’onirico e del filosofico. Le mie ricerche all’interno della materia mi fanno passare attraverso queste tre fasi. Per quanto riguarda il filosofico, non vorrei ripetermi, considero l’uomo più importante di come lui stesso si considera. L’uomo dovrebbe vivere in modo diverso”.

Iniziamo a colloquiare su questo tema: una persona “tipo” nasce, cresce, va a scuola, trova un lavoro, forma una famiglia, arriva alla pensione (se riesce) e alla fine muore. Siamo impacchettati nella giornata standard “sveglia-lavoro-casa-letto”. In tutto questo c’è qualcosa che ci dà soddisfazione, che ci fa sentire realizzati?

Mi racconta com’è diversa la vita a Mosca, dove le persone staccano dal lavoro alle cinque del pomeriggio e si programmano di settimana in settimana il resto della giornata. Ore dedicate alla cultura: spettacoli, mostre, musei, poi un pasto frugale e a letto presto. Non si esce quasi mai dopo cena, alle dieci Mosca è una città deserta.

Poi orgoglioso mi mostra una foto: “questa secondo me è una delle cose più importanti che ho fatto nella mia vita: dei bambini stanno guardando una mia opera in mostra alla Gran Guardia a Verona. Sono ragazzini di quinta elementare: guarda che senso di stupore ho provocato nelle loro facce, nei loro cuori e nei loro sentimenti. Loro dovrebbero avere una vita diversa da quello che abbiamo detto fino adesso. E’ una foto che per me vale tutta la mia carriera pittorica”.

Pensi che ci sarà un altro periodo in futuro?

“La ricerca mi porterà sicuramente un altro periodo, che è già in atto, ma è ancora in stato embrionale. I periodi sono fatti anche di passaggi e qui il passaggio non c’è ancora, ma l’aspirazione sì. Se parliamo di periodi tecnici, tutto quello che è stato fatto non esiste più, non fa parte del domani, il domani è da costruire”.

Hai avuto maggiori soddisfazioni in Italia o all’estero?

“Per il tipo di cultura all’estero, per quanto riguarda le soddisfazioni invece ne ho avute di enormi anche in Italia, senza distinzione. C’è un approccio diverso all’estero nei confronti dell’arte e lo senti, lo vedi e ti rendi conto che esiste, l’Italia è molto diversa”.

Tra i numerosi riconoscimenti che ti sono stati conferiti, qual è il più importante per te?

“L’ultimo, l’Onorificenza di Accademico Onorario dell’Accademia delle Belle Arti della Russia. Non che sia il più importante, ma ha uno spessore internazionale perché sono l’unico artista italiano vivente che ha questo titolo. La sede di Mosca comanda tutte le Accademie della Russia, ed essere l’Accademico di tutte le Accademie è un prestigio non da poco. Stiamo facendo un film su questo”.

Philippe Daverio ti ha definito “un folle a piede libero” e “sciamano dell’arte”. Che ricordo hai di lui?

“Straordinario. Io penso che le persone mi capiscano, capiscano la mia arte, cos’è il mio pensiero e la mia pittura. Con Daverio è stata una cosa fulminea: lui ha capito la mia opera guardando qualche fotografia, non gli ho mai spiegato niente e lui non mi ha mai chiesto cosa faccio, ha capito immediatamente tutto quello che c’era dentro la mia pittura. Persona straordinaria, eccezionale, era anche un motivo di orgoglio essergli amico. L’ultima volta che ci siamo parlati mi ha detto: “stiamo preparando qualcosa per te a Milano” e poi non ci siamo più sentiti. Il fatto che mi consideri “un folle a piede libero”, vuol dire che ha capito esattamente la follia positiva che mi contraddistingue”.

Qual è il commento che ti ha fatto più piacere ricevere?

“Un’infinità. Quando vengono dall’espressione felice delle persone, i commenti sono tutti importanti. Quando hai il primo approccio con una persona, che non ti dà molta confidenza, ma dopo un attimo la tua arte lo cambia e lo vedi sorridente, espansivo, per me è il massimo. Questo mi succede praticamente sempre: la gente entra con le sue problematiche e un attimo dopo si trova in un mondo sconosciuto, ma piacevole”.

La tua casa è diventata una mostra permanente: è la naturale volontà di chiudere un cerchio ritornando dove tutto è cominciato o è solo un periodo di pausa prima di riprendere altri viaggi?

“La mia è una mostra permanente perché è l’ombelico del mondo per me, da qui parte tutto e qui tutto ritorna. Ho la fortuna di aver creato questo ambiente dove ritrovo le stesse persone che avevo precedentemente incontrato sia in Italia che all’estero. Questo circolo è anche voluto e mi dà delle grosse soddisfazioni, perché arrivano comitive da Mosca, Parigi, New York, inoltre ho ospitato a casa mia una mostra di un artista di San Pietroburgo”.

Cosa ti auguri per la ripartenza dopo questo anno di pandemia?

“Mi auguro di ricevere un incarico: è metaforico, ma mi auguro che lo ricevano tutti quanti. L’amministrazione del mio paese mi ha chiesto: “cosa possiamo fare per te?”. Ho risposto: “se volete una mano, io vengo a fare l’assessore: voglio l’assessorato alla felicità”.

Puoi seguire Charlie su https://www.charlieart.it/

Si parte!

Ciao a tutti! Sono entusiasta di iniziare questa nuova avventura. Libero & Leggero è una scommessa con me stessa, perché ogni tanto ho bisogno di una scossa. Tutto è cominciato durante la pandemia. Un cambio di abitudini così drastico ha fatto sì che molte cose si accumulassero dentro di me, scatenando un forte bisogno di esternarle. Cresceva sempre più la necessità di scrivere, ma non avevo ancora ben chiara la via da percorrere. Finalmente si è presentata la soluzione: questo blog sarà la mia lavagna dove appendere tanti foglietti colorati.

Sì, nessuna immagine può essere più azzeccata: i biglietti sono leggeri, con un soffio puoi farli volare come tante farfalle colorate.

Libertà e leggerezza, capisaldi di questo blog, aspirazione di molti, perché siamo stanchi di parole pesanti come macigni che ci schiacciano lo stomaco. Vogliamo ricostruire noi stessi e dobbiamo farlo partendo dalle piccole cose, dalla loro bellezza, dando un senso a tutto ciò che ci circonda. Abbiamo bisogno di essere felici, di partire all’avventura con passo agile e zaino leggero.

Nel mio viaggio dedicherò ampio spazio all’arte nelle sue molteplici forme, perché ha sempre fatto parte di me; aggiungerò anche interviste a persone che ne hanno fatto una professione, una grande passione o la loro ragione di vita. Non mancherà inoltre l’occasione di conoscere più da vicino la storia di grandi eccellenze italiane.

Libero & Leggero vuole essere un punto di incontro per tante persone che hanno interessi diversi, che arrivano qui per leggere di un argomento ma che nel frattempo si appassionano a qualcos’altro.

Mi auguro che possa essere uno stimolo, che ognuno di voi possa trovare argomenti interessanti e coinvolgenti e che il mio blog vi faccia diventare più curiosi. Conto molto sui vostri commenti perché credo che il dialogo sia stimolante, quindi li attendo con ansia.

Di una cosa sono sicura: Libero & Leggero vi sorprenderà.

Salite a bordo, stiamo per iniziare il nostro viaggio

Libero & Leggero.