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Si parte!

Ciao a tutti! Sono entusiasta di iniziare questa nuova avventura. Libero & Leggero è una scommessa con me stessa, perché ogni tanto ho bisogno di una scossa. Tutto è cominciato durante la pandemia. Un cambio di abitudini così drastico ha fatto sì che molte cose si accumulassero dentro di me, scatenando un forte bisogno di esternarle. Cresceva sempre più la necessità di scrivere, ma non avevo ancora ben chiara la via da percorrere. Finalmente si è presentata la soluzione: questo blog sarà la mia lavagna dove appendere tanti foglietti colorati.

Sì, nessuna immagine può essere più azzeccata: i biglietti sono leggeri, con un soffio puoi farli volare come tante farfalle colorate.

Libertà e leggerezza, capisaldi di questo blog, aspirazione di molti, perché siamo stanchi di parole pesanti come macigni che ci schiacciano lo stomaco. Vogliamo ricostruire noi stessi e dobbiamo farlo partendo dalle piccole cose, dalla loro bellezza, dando un senso a tutto ciò che ci circonda. Abbiamo bisogno di essere felici, di partire all’avventura con passo agile e zaino leggero.

Nel mio viaggio dedicherò ampio spazio all’arte nelle sue molteplici forme, perché ha sempre fatto parte di me; aggiungerò anche interviste a persone che ne hanno fatto una professione, una grande passione o la loro ragione di vita. Non mancherà inoltre l’occasione di conoscere più da vicino la storia di grandi eccellenze italiane.

Libero & Leggero vuole essere un punto di incontro per tante persone che hanno interessi diversi, che arrivano qui per leggere di un argomento ma che nel frattempo si appassionano a qualcos’altro.

Mi auguro che possa essere uno stimolo, che ognuno di voi possa trovare argomenti interessanti e coinvolgenti e che il mio blog vi faccia diventare più curiosi. Conto molto sui vostri commenti perché credo che il dialogo sia stimolante, quindi li attendo con ansia.

Di una cosa sono sicura: Libero & Leggero vi sorprenderà.

Salite a bordo, stiamo per iniziare il nostro viaggio

Libero & Leggero.

Emanuela Aureli: “La mia fortuna? Imitare personaggi maschili”.

Credo che per essere dei bravi imitatori sia indispensabile una buona dose di autoironia. Ne ho la conferma parlando con Emanuela Aureli, volto noto del piccolo schermo: divertente e spiritosa, dimostra di essere un’artista umile ed estremamente disponibile. Non si contano più i personaggi che ha fatto suoi e che ripropone a teatro e nei programmi a cui partecipa: dalle conduttrici Milly Carlucci, Antonella Clerici, Mara Venier e Barbara D’Urso, alle cantanti Orietta Berti, Fiorella Mannoia, Patty Pravo e Loredana Bertè, passando per Sofia Loren e Valeria Marini. La sua caratteristica distintiva però è la capacità di imitare anche personaggi maschili: Al Bano, Il Volo, i Ricchi e Poveri e perfino il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ingegnosa e versatile, sa cogliere quei particolari che sanno stupire il pubblico, convincendolo, se mai ce ne fosse bisogno, del suo innato talento.

Partiamo dall’inizio: hai esordito nel 1992 come concorrente alla Corrida e fu la mamma ad iscriverti. Quella sera vincesti la puntata, soprattutto grazie alla mitica imitazione di Al Bano, e da lì poi iniziò la tua carriera. Possiamo quindi dire che la mamma ci aveva visto lungo?

“Esattamente. È stata proprio lei a darmi questa spinta, perché io non ero convinta di fare il provino, anzi. Quando arrivai a casa e lei mi disse “guarda che ti ho iscritta alla Corrida”, subito risposi: “io non ci vengo, ma neanche se mi pagano!” Invece poi fu una grande soddisfazione, anche perché i miei mi dicevano di cogliere l’occasione e di fregarmene se fosse andata male. Alla fine hanno avuto ragione loro: i genitori hanno sempre ragione, perché vedono molto più avanti di noi. Andai a Roma al Teatro Brancaccino dove feci il provino: c’era pieno di gente, volevo andarmene, ma alla fine lo superai. Un paio di giorni dopo mi dissero di presentarmi a Cinecittà: arrivare là era un sogno, ero emozionata, felice ed incredula. Da lì è stato tutto un domino fino ad oggi: in 18 anni il bilancio è grande, non mi aspettavo di poterne parlare ancora per tutto questo tempo”.

Quanto tempo ti serve per preparare un personaggio?

“Dipende da quanto è complesso. Possono volerci mesi oppure anche una settimana, dipende da come lo percepisci e da come lo vivi. Te lo devi sentire, è una catarsi, piano piano”.

Quindi su che base li scegli?

“In base alle emozioni che mi danno e alla simpatia che provo per loro. Se il personaggio mi sta simpatico riesco a prendere qualsiasi cosa da lui, se mi sta antipatico zero assoluto!”

Ti è mai successo di provare ad imitare qualcuno ma poi il risultato non era quello sperato?

“Sì, con Celentano. Pensa che nella mia carriera artistica mi ha portato fortuna proprio imitare personaggi maschili, magari se avessi fatto solo personaggi femminili non se ne sarebbe accorto nessuno. Questa è stata la chiave giusta che mi ha permesso di aprire quelle porte. Strano, non pensavo neanche di averla la chiave!”

Invece di porte in tv ne ha spalancate tante: le prime apparizioni in Rai a Stasera mi butto… e tre!, I Cervelloni, Su le mani e Domenica In l’hanno fatta conoscere anche a Canale 5, dove rimarrà per anni ospite fissa di Buona Domenica. Dopo aver recitato nella fiction Carabinieri 4, torna in Rai partecipando a Ballando con le Stelle, Tale e Quale Show e Il Cantante Mascherato. Attualmente è nel cast de I Fatti Vostri su Rai2.

Sei un’artista dalle mille sfaccettature: imitatrice, attrice, ballerina e cantante. Tra l’altro hai dichiarato che ti piace molto di più cantare che non imitare. Ti chiedo quindi com’è stata la tua esperienza al Cantante Mascherato.

“Bellissima! Da quell’angolazione vedi un mondo che si anima e il mondo interiore è quello a cui tu dai più peso in quel momento, perché non ti vede nessuno. Devi convincere con delle armi che non sai di possedere, ma che ti escono fuori all’improvviso come fiori che si aprono al sole. Il pubblico è il sole e tu vedi questo germogliare di emozioni, di sensazioni, ma anche di inquietudine perché la maschera te la mette un po’: ti fa riflettere, ti mette in contatto con te stessa, con quel lato che lasciavi in ombra e che stranamente ti fa tirare fuori altre cose. La maschera è meravigliosa, ti stupisce continuamente. Grazie a Milly perché un programma così è raro che riesca a far breccia su di noi in questo modo, mi ha dato tanto”.

In più sei anche pittrice: lo fai per staccare dal lavoro, dalla quotidianità?

“Io dipingo quando ne ho proprio bisogno, come quando mangi una cosa perché senti che il fisico ne ha bisogno. Mi metto a dipingere per esternare certe cose su tela, è strano ma è così”.

Sei da sempre nel cast di Tale e Quale Show come coach, non per la parte canora ma per aiutare i concorrenti a cogliere tutte le caratteristiche del personaggio che andranno ad imitare. Quanto è difficile insegnare tutto questo a qualcuno che non l’ha mai fatto?

“Sembra facile perché loro sono bravissimi, dotati di voci pazzesche, di duttilità, di trasformismo e di ironia, ma è difficile perché devi ricreare quel personaggio insieme a loro. Glielo devo spiegare e io non sono una che si spiega tanto bene! Il tempo che ci mettono a capirti e se poi tu non ti spieghi bene, passano anni in un attimo!”

Progetti futuri?

“Ci sono tante cose che bollono in pentola. Tale e Quale credo di sì, ma io sono sempre scaramantica, non do mai niente per scontato”.

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Red Canzian: un leone sul palco e nella vita.

“È la prima volta che salgo sul palco dopo i problemi di salute che ho avuto tra gennaio e febbraio che mi hanno tenuto due mesi in ospedale. Tornare qui ha il sapore di una ripartenza, di qualcosa di pregiato, di prezioso: quando l’avevamo gratis tutti i giorni ci sembrava la normalità, mentre la apprezziamo molto di più ora che è una rarità. Andare sul palco e lavorare, cantare e trovare l’abbraccio della gente sembra una cosa speciale visto che ci è mancata per due anni, quindi non posso che essere felice”.

Esordisce così Red Canzian, bassista e cantante dei Pooh, storica band che in 50 anni di carriera ha fatto la storia della musica italiana. Di anni ne sono passati tanti, da quel primo provino sostenuto nella lavanderia di un hotel a Roncobilaccio, con una miriade di rotoli di carta igienica a fargli da cornice, perfetti per insonorizzare la stanza. “Sono andato al provino dei Pooh non convinto, nell’incoscienza mentale che hai a vent’anni, quando ti senti un supereroe e non pensi che anche per te i giorni avranno una fine. Mi sentivo invincibile e soprattutto lontano da quella musica; facevo la musica prog e pensavo: “mah, i Pooh…” Poi alla fine meno male che l’ho fatto quel provino: ho sentito dei musicisti bravissimi che suonavano da Dio, ed è stato molto bello misurarmi subito con loro con uno strumento che non avevo mai suonato. Il loro manager diceva: “non sarà mica un problema, due corde in più, due corde in meno…” quindi alla fine ho lavorato con due corde in meno!” E riguardo allo scioglimento del gruppo commenta: “nei Pooh ha sempre valso la democrazia: la maggioranza ha deciso di fermarsi e credo sia stata una cosa molto intelligente. Abbiamo fatto una conclusione importante e se non avessimo terminato in questo modo, la carriera sarebbe finita a scemare come qualsiasi altra che si protrae troppo a lungo. Io credo che soltanto i grandi pensatori sono in grado di accettare di fermarsi quando ancora sono dei numeri uno”.

Persona squisita Red, simpatico, affabile, un leone sul palco e nella vita, con un cuore capriccioso che per due volte l’ha costretto a fermarsi per un po’. “Dopo un mese che ero ricoverato in ospedale, la voce non tornava perché ero stato intubato. Mia moglie ha chiamato la logopedista che me l’aveva fatta tornare nel 2015, quando mi hanno operato al cuore e le ho detto: “senti, qui dobbiamo lavorare perché non siamo messi bene.” Abbiamo cominciato a fare lezioni via Skype, e quando facevo quei suoni strani che servono per scaldare la voce, ogni tanto qualche infermiera entrava nella stanza preoccupata per chiedermi se andava tutto bene. Allora ho deciso che era meglio cominciare a cantare: da quel momento si sono tranquillizzate e si fermavano sulla porta ad ascoltarmi”.

È carico Red, pronto a tornare sul palco e ad incontrare il suo pubblico. “Sto preparando un concerto per l’estate, un percorso narrativo dove citerò 27 brani dei Pooh e avrò dei grandi artisti al mio fianco che duetteranno con me: Mario Biondi, Marco Masini ed Enrico Ruggeri. Ho recuperato i fiati che hanno suonato nella nostra tournée del 1986, che sono dei signori più vecchi di me ma che suonano sempre benissimo, ed è una meraviglia vederli tornare sul palco. Infine farò un duetto virtuale con Stefano, che ho filmato tre mesi prima che se ne andasse. È qualcosa di prezioso, una meraviglia”. Inoltre è reduce dalla sua ultima fatica “Casanova Opera Pop”, un musical tratto dal bestseller di Matteo Strukul “Giacomo Casanova – La sonata dei cuori infranti”, che racconta gli aspetti meno conosciuti del 35enne al rientro dall’esilio, mostrando il suo lato romantico e le sue conoscenze in varie materie, dalla filosofia alla chimica passando per le lingue straniere, facendolo diventare quasi un supereroe buono. Un cast straordinario di 21 performer tra attori, cantanti, ballerini e acrobati che hanno già portato con grande successo lo spettacolo per tre mesi nei teatri del nord Italia dove ritornerà quest’autunno. Grazie a quest’opera Red è stato premiato pochi giorni fa dal Sindaco di Venezia con il Leone D’Oro di San Marco, simbolo della città, per averla omaggiata nell’anniversario dei 1600 anni dalla sua fondazione: “il Leone alato, che a Venezia chiamano “moéca”, è proprio un bell’animale; questo è l’unico premio che tengo in casa perché è veramente bellissimo”.

Infine, come non tracciare un bilancio di una carriera costellata di grandi esperienze e di successi. “Non c’è un modo per fare questo mestiere: lo puoi fare con una chitarra davanti a dieci persone, con un pianoforte, un basso e delle fotografie davanti a 600 spettatori, oppure in uno stadio. L’emozione che tu racconti sul palco non cambia valore a seconda della platea o dell’amplificazione. Se urli qualcosa con 100.000 watt o la canti in un salotto davanti al caminetto, il suo valore artistico intrinseco non cambia. Dopo la bulimia di concerti con migliaia di persone, con il suono potente, dividendo in quattro con i miei fratelli l’esperienza musicale, non mi costa, non mi pesa e mi riconosco in questa esperienza da solo. In un’intervista mi hanno chiesto quali sono le cose più importanti per me: io ho risposto il palcoscenico e la famiglia, il pubblico e la vita privata. In che ordine? Non c’è un ordine, perché quando sono sul palcoscenico sto con la famiglia, stiamo insieme per cui è un tutt’uno. Non provo alcun senso di riduzione, perché io credo che la cosa importante sia il come fai le cose: se io faccio una cosa minimalista, pianoforte e voce ad esempio, cerco di farlo sempre mantenendo un livello di rispetto nei confronti del pubblico che si deve tradurre necessariamente in un’eleganza e in una classe che devi avere nel momento in cui racconti e rappresenti una storia. Ho rinunciato a tante televisioni dove non si cantava dal vivo, a tanti programmi che non assomigliavano al mio modo di pensare. Io non mi permetto di giudicare i programmi, io giudico me stesso, e se non sono felice al mattino quando mi alzo, sapendo di dover andare a fare una cosa che non mi piace, a settant’anni preferisco evitare”.

Puoi seguire Red Canzian su https://www.redcanzian.it/ e https://casanovaoperapop.it/

Leopoldo Ramponi: il custode della tradizione veronese.

Amare la propria città è quasi naturale, ma conoscerne la storia, custodirne le tradizioni e portare nel mondo questa passione è un’arte, e il suo massimo esponente a Verona si chiama Leopoldo Ramponi. Presidente dell’Associazione Ristoratori di Confcommercio Verona, da oltre trent’anni è il titolare della Trattoria Al Bersagliere, appena citata da Vanity Fair tra i 10 migliori ristoranti tradizionali del Veneto. Quelle pareti ne hanno di storie da raccontare, pullulanti di foto autografate dai tanti personaggi passati da lì, dai nostri Zucchero, Riccardo Cocciante e Fiorella Mannoia ai mostri sacri come Joe Cocker e B.B. King, ricordi indelebili insieme ai cimeli rari che Leopoldo custodisce con cura, come la chitarra di Rudy Rotta o il volante di Gilles Villeneuve. Ciliegina sulla torta è la storica cantina del 1200 situata al piano inferiore, memoria della Verona antica, le cui spesse mura conservano ancora intatti gli archi delle finestre di quella vecchia casa.

La Trattoria “Al Bersagliere” è un locale storico che ha quasi cento anni: è nato come ristorante di pesce nel 1928, poi lei lo ha acquistato nel 1990 e qualche anno dopo l’ha trasformato nel tempio della cucina tradizionale veronese. Come è arrivato a questa scelta?

“Io amo le tradizioni e con la quarta generazione di ristoratori cerchiamo di fare le cose tipiche e fondamentali che sono la nostra storia e la nostra cultura. Questo era un grande ristorante di pesce, uno dei più famosi di Verona, però io vengo dalla montagna e faccio le mie cose tradizionali. Tra l’altro ho scritto un libro proprio per ricordare i vecchi tempi e le nostre tradizioni”.

Se le chiedessi di fare una classifica dei nostri piatti della tradizione, i migliori o i più conosciuti, quali sceglierebbe?

“Non si può parlare di migliori perché sono tutti differenti. Diciamo che la storia di Verona sono la pearà e la pastissada. Quest’ultimo è un grande piatto: la sua storia ce la racconta il Maestro Giorgio Gioco e risale ai tempi della guerra tra Alarico e Odoacre, mentre io la collego a Ezzelino da Romano che nel ‘200 voleva conquistare Verona, e ci tengo a ricordare che la nostra città non è mai stata conquistata da nessuno. A quel tempo le guerre si combattevano solo dall’alba al tramonto e alla sera, dato che il popolo aveva fame, vista la grande moria di cavalli, si cuoceva la loro carne in un vino un po’ acetico con tanta cipolla, che è un grande disinfettante. Nacque così questo stracotto di cavallo. La pearà è ancora più importante perché è proprio il simbolo di Verona: nasce ai tempi di Re Alboino con Bertoldo, giullare di corte, che fece questa zuppa a base di pane, brodo e pepe per Rosmunda, diventata inappetente dopo essere stata costretta a bere nel teschio del padre. Questa è la salsa base da accompagnare al bollito misto ed è una nostra esclusiva veronese: con la Confraternita l’abbiamo presentata in Portogallo, Spagna, Francia e Germania. Dovevamo andare anche a Londra, ma a causa del Covid abbiamo dovuto rimandare”.

Qual è invece il suo piatto preferito?

“Indubbiamente il baccalà. Uno dei ristoranti in cui ho lavorato era famosissimo per questo: venivano personaggi importanti come Romolo Valli, Renata Tebaldi, perfino Re Baldovino del Belgio, tutti per questo piatto e io mi chiedevo il perché. Così mi sono specializzato nel baccalà che è diventato il mio piatto forte; l’ho presentato anche all’Expo di Milano”.

Secondo lei le tradizioni vanno mantenute al 100% o serve un pizzico di innovazione?

“Io sono per le tradizioni, ma il mangiare di una volta non può essere quello di adesso. Noi oggi abbiamo imparato a fare le cotture, lavoriamo molto meglio e con un sistema completamente diverso: abbiamo i forni a convenzione ad esempio e le pietanze sono molto più leggere. Parlando sempre di tradizione, ho collaborato alla creazione del marchio “Ristorante tipico di Verona”: nato nel 2012, oggi conta 21 locali associati che si impegnano a mantenere le nostre tradizioni. Siamo ristoranti classici con una mise en place normale, senza carta o plastica, dove i camerieri devono parlare almeno una lingua straniera, il 70% dei prodotti deve essere veronese o veneto e il 60% dei piatti deve essere nostro. Pasta e fagioli, bigoli, pastissada, baccalà, bollito, tutti i nostri piatti storici devono essere nel menu”.

Oltre ad essere ristoratore, ha fatto il barman ed è anche sommelier. Fare il vino è un’arte, ma è un’arte anche saperlo descrivere ed abbinare ai piatti giusti…

“Certo. Non voglio fare la figura del saccente: se il cliente chiede io il vino lo spiego, ma ultimamente non lo faccio più perché il 90% si fida e ti dice “faccia lei”. La ristorazione una volta era molto diversa: i clienti oggi sono molto più frettolosi e ci dispiace molto. Purtroppo stiamo imparando le abitudini americane, importiamo gli hamburger, i wurstel e le chips, troviamo troppo cibo nei centri commerciali e non abbiamo più la voglia di fermarci un attimo, di andare in un ristorante, di stare insieme un paio d’ore a parlare tra di noi invece di avere sempre il cellulare sul tavolo. Pensare di fare tutto in venti minuti non è la nostra politica. Chi si siede a tavola deve stare bene, e poi i miei clienti vengono da tutto il mondo e non possono conoscere tutti i nostri piatti tipici, quindi dobbiamo avere il piacere di stare insieme a loro. Gandhi diceva una cosa molto importante: “dobbiamo ringraziare il cliente perché ci dà la possibilità di servirlo”. Da questo si capisce quanto è importante il nostro mestiere”.

Sommelier si diventa solo studiando o serve anche un po’ di talento?

“Prima di tutto bisogna avere il palato: ci sono persone che non sono sommelier ma sono bravissimi con i vini perché hanno un palato straordinario. Ricordo che nel 1980, prima di comprare un vino nuovo lo facevo assaggiare al ragazzo che mi portava il pane: lui di vino ne beveva tantissimo, mi diceva sì o no e non ha mai sbagliato una volta. Poi ovviamente la scuola è molto importante: sapere da dove arriva il vino, che uve ci sono dentro, perché va bene con quel piatto e non con un altro bisogna saperlo, perché il cliente oggi te lo chiede”.

Degno di nota è il libro che Leopoldo ha scritto qualche anno fa con la collaborazione del giornalista veronese Stefano Cantiero e dello chef friulano Fulvio De Santa, un volume ben fatto che è (passatemi il termine) la Bibbia della cucina veronese. “Il gusto della memoria” non contiene solamente 80 ricette spiegate nei minimi dettagli, ma anche le storie di una trentina di prodotti del territorio e dei cinque ambienti simbolo che contraddistinguono la provincia, il tutto corredato dalle meravigliose immagini di Flavio Pettene.

Il libro che ha scritto era un suo desiderio o è arrivato in seguito con il tempo?

“Ci sono voluti cinque anni di studio e tre per la realizzazione del libro. Abbiamo fatto delle ricerche con l’Università di Verona, infatti la prefazione è scritta dal Prof. Marchi: le ricette prima sono state cercate e poi realizzate in cucina, perché abbiamo voluto indicare correttamente le dosi e la quantità degli ingredienti. Diciamo che più che un libro di ricette è un libro di storia del nostro territorio, della cultura e dei prodotti tipici: infatti lo abbiamo diviso in cinque zone ben precise, cioè il Lago, la Lessinia, l’est veronese, la pianura e la città. Quest’ultima è molto importante per le tagliatelle con i fegatini, delle quali parlava Barbarani, e per gli gnocchi. Dal 1450 abbiamo il Papà del Gnocco a rappresentare questo piatto nato in periodo di peste, quando il proprietario di un granaio donò la sua farina che venne mescolata con l’acqua. E pensare che questo miscuglio fino a poco tempo fa veniva usato come colla, mentre allora serviva per sfamare il popolo; è rimasta la tradizione del “venerdì gnocolar”, giorno in cui veniva regalata questa pietanza alla gente”.

Lei è anche Presidente della Confraternita del lesso con la pearà. Com’è nata questa associazione e cosa fa concretamente?

“La Confraternita è nata per scherzo, perché mancava una delle cose più tradizionali di Verona. All’inizio era solo della pearà, ma non aveva senso portarla in giro e presentarla da sola, quindi abbiamo aggiunto il lesso. L’idea è quella di promuovere nel mondo questo piatto, ma è anche un circolo culturale che promuove il prodotto nelle scuole alberghiere e all’Università. Gli iscritti sono tutti appassionati di cucina e ci teniamo a portare avanti questa tradizione anche per i giovani che devono imparare la nostra cultura e la nostra storia”.

Puoi seguire Leopoldo Ramponi su http://www.trattoriaalbersagliere.it/ e Facebook

Giorgio Scarato: l’eccellenza del disegno che tutto il mondo ci invidia.

Giorgio Scarato si presenta come una persona austera e rigorosa, sguardo severo, labbra serrate dietro la lunga barba grigia. Si siede davanti a me e mi scruta: “Voglio sapere prima che domande mi farai”. Fortunatamente mi basta poco per capire che è tutta una finta: il Maestro infatti è una persona estremamente disponibile, affabile, sempre con la battuta pronta, oltre che un grande professionista. Parliamo di un’istituzione nel campo dell’illustrazione: ha collaborato con le più grandi case editrici di tutto il mondo, da Walt Disney a Mondadori, passando per il gruppo editoriale Fabbri-Bompiani-Sonzogno. Le sue opere sono state esposte nelle mostre di tutto il mondo, da New York a Chicago, da Dallas a Palm Beach, e poi in Giappone passando per Stoccolma, Vienna e Praga, “…ma non sono mai andato, altrimenti non sarei riuscito a lavorare”. Considerato uno dei più grandi pittori del mondo, si dice anche che sia il vero Maestro di Milo Manara.

Il suo destino era già scritto: il primo premio a livello nazionale lo vinse alle scuole medie disegnando un accampamento di zingari, sicuramente un soggetto inusuale per un ragazzino.

“Certamente sì. Mio padre è morto quando avevo 5 anni, quindi i ricordi sono un po’ sfumati. Quando andavo a scuola in qualche materia zoppicavo, studiavo poco e mi ha salvato più volte la mia vena artistica”.

Dentro di lei prevale l’illustratore o il pittore?

“Dobbiamo fare un distinguo. Ci sono vari mondi editoriali nell’illustrazione: era la Mondadori a comandare il mondo in quegli anni quando ero a Milano, e in subordine il più popolare come edizioni era il Gruppo Editoriale Fabbri, che poi diventò Fabbri Sonzogno Bompiani. La mia cultura del fare è maturata lì a Milano negli anni ’60 all’Eurostudio, che era come un’agenzia che procurava lavori per tutti: c’è stato questo intreccio con personaggi che noi guardavamo da lontano prima di essere là, come Hugo Pratt, personaggi che oggi non ci sono più”.

A proposito di questi personaggi famosi, nella sua carriera ha avuto modo di incontrarne parecchi: abbiamo citato Hugo Pratt, ma ricordiamo anche tra gli altri Umberto Eco. Ce n’è uno in particolare che ha segnato il suo percorso?

“Dal punto di vista di disegno, fumetto ed illustrazione i campioni c’erano già. Abbiamo citato Hugo Pratt, che tra l’altro ha le sue tavole esposte al MoMA di New York. Lui inventava anche le storie, non aveva bisogno di una sceneggiatura da sviluppare: era un grande attore, recitava sempre una parte come i suoi personaggi dei fumetti. Poi arrivò l’invenzione geniale di quel personaggio che è stato Corto Maltese che viaggiava nel tempo… da Pratt c’era sempre da aspettarsi qualche sorpresa”.

L’arte di Scarato ha abbracciato anche la sfera religiosa, con ritratti di cardinali, progettazione di oggetti sacri e il primo premio vinto al Concorso Internazionale indetto dall’Ordine dei Comboniani. Inoltre, il Maestro è il Presidente dell’Associazione Culturale “Bottega d’Arte”, fondata in Sud America dallo scrittore Jorge Amado, che gode del Patrocinio della Presidenza del Parlamento Europeo.

Lei tiene corsi di disegno e pittura presso il suo Atelier, che si trova in una ex Chiesa del 1470. Cosa consiglia ai giovani che si vogliono avvicinare a questo mondo?

“Beh, è giusto che ognuno faccia quello che crede, che vada avanti per la sua strada… bisogna anche vedere se c’è la stoffa. Poi c’è la famosa sigla: S.C.T.”

Lo guardo incuriosita: “devo indovinare?”

Mi sorride ed io non so proprio a cosa pensare, quindi me la faccio tradurre: Sono C…. Tuoi. Tutto chiaro. E scoppiamo a ridere.

Puoi seguire Giorgio Scarato su http://giorgioscarato.com/

Chef Tomei: artigiano della cucina.

Mangiare al ristorante di Cristiano Tomei è un’esperienza, una di quelle che vanno fatte almeno una volta nella vita, che ti resta impressa nella mente e tatuata sul cuore. Una porta verde chiusa dall’interno, una piccola insegna e un campanello: devi sapere dove andare, altrimenti ci passi davanti senza accorgertene. Da fuori non si scorge nulla, e non ci sono camerieri che richiamano la tua attenzione. Questo è L’Imbuto, assolutamente non convenzionale, come il suo proprietario.

Tomei non ha bisogno di presentazioni: lui stesso dice di essere un cuoco prima che uno chef, e prima ancora un uomo che vive il proprio territorio. Dopo il diploma all’Istituto Nautico di Viareggio, capisce che questa non è la sua strada, e da autodidatta si lancia sulla cucina, perfezionandosi all’estero. Nel 2002 apre L’Imbuto, che ha sede nella limonaia di Palazzo Pfanner a Lucca, e qualche anno dopo inizia il percorso televisivo, che lo vedrà tra gli altri alla Prova del Cuoco su Rai1, a Masterchef Magazine su Sky, a I Re della Griglia su DMAX e a Cuochi d’Italia su TV8. Nel 2014 ottiene la Stella Michelin e dallo scorso anno è Executive Chef all’Hotel Bauer di Venezia, sul Canal Grande. “Dieci anni fa mi davano per finito, ma io non volevo”: è cominciata così la rinascita di Cristiano, che si è rimesso in gioco e ha riscattato sé stesso contro tutti i pronostici, lasciatemelo dire, per fortuna. Sì, perché sarebbe stato un vero peccato perdere un personaggio così geniale e folle al punto giusto, di quelli che piacciono a me.

All’Imbuto non c’è un menu: si sceglie il numero delle portate e si comunicano eventuali allergie o cibi che non piacciono. Da questo momento il cliente è nelle mani dello chef, che mi racconta: “Anch’io una volta avevo il menu, ma come posso essere obbligato ad avere sempre determinati piatti se non ho gli ingredienti freschi?”. Come dargli torto, questo è indice di correttezza verso gli ospiti e di qualità delle materie prime. Mi consegnano la Tomeichelin, una mappa dell’isola dello chef, dove tutto prende il nome di cibi, ingredienti e utensili da cucina, anche con giochi di parole: una sorta di biglietto da visita, degna introduzione di ciò che mi aspetta. Lo staff, competente e cordiale, presenta le portate con maestria: la maitre è la moglie Laura, e tra gli altri è da segnalare la presenza di Marta Passaseo, miglior Sommelier d’Italia per la guida di Identità Golose 2021.

Iniziamo con un tramezzino di tonno con la sua maionese, racchiuso tra due fette di pomodori verdi fritti, condito con salsa agli aghi di pino. “Non avete idea di quanto lavoro ci sia dietro: ogni parte del tonno viene usata per la preparazione di questo e di altri piatti”. Ciò significa che in cucina non si butta niente anzi, viene tutto usato con molta intelligenza. Segue il “Rombo in Pineta”, servito con porcini e salsa all’estratto di abete: il trancio viene impanato in farina di corteccia di pino marittimo, ed il contrasto tra l’interno bianco e l’esterno scuro, assieme al gusto, è spettacolare. Arriva la triglia cotta nel suo grasso sormontata dalla sua insalata e poi l’ossobuco ripieno di polpa di ricci di mare, sbalorditivo.

Passiamo ai primi piatti con la “Pasta in bianco al contrario”: ravioli ripieni di olio e Parmigiano, accompagnati da seppioline saltate in padella e polvere di cavolo nero, che lo chef raccomanda di mangiare “al cucchiaio” perché devono esplodere in bocca. So bene che per i toscani l’olio è una religione, va usato abbondantemente, e qui non c’è dubbio: una sensazione unica che attiva tutti i miei neuroni. Segue la minestra di riso cotto nelle croste di Parmigiano e sfumato con lo champagne, accompagnato da salsa di fichi, altro esempio di uso intelligente degli ingredienti. Ma è la “Bistecca Primitiva” il piatto che mi ha fatto impazzire: carne di manzo cruda con bucce di patata fritte, adagiata su una corteccia di pino marittimo calda che scalda la carne e gli conferisce gusto e aroma. Lo chef raccomanda di mangiarla con le mani proprio per avvicinarsi di più al piatto ed assaporare fino in fondo i profumi che emana. Arrivano poi il coniglio con le fragole, servito nel tegame di una volta, e il cinghiale con le ciliegie. Ma è il momento di un’altra diavoleria dello chef: un cartone della pizza “con gli avanzi”, specifica il cameriere, quello che io ho identificato come un sorbetto, in preparazione del dolce. Lo stupore è grande nel vedere in un angolino due piccoli pezzi di pasta con un paio di foglie di basilico e qualche goccia di crema, ma è ancora più grande la scoperta di un gusto dolce e salato insieme, che ricorda la pizza e che è talmente buono da non riuscire a descriverlo.

E’ il momento dei dolci, e qui traspare tutta l’ironia da bravo toscano quale è Tomei: geniale il cubetto di formaggio servito sulla trappola per topi, che in realtà è una crema catalana. “Ho due fobie: il dentista e i topi, quelli grossi. Il topo è la cosa peggiore che si possa trovare in cucina, ma in fondo i topolini di campagna sono simpatici. Questo è il mio omaggio al più bel film di animazione sulla cucina: Ratatouille”. Segue il budino al cioccolato e peperone con roccia di cioccolato, e per finire uno strepitoso gelato alla ricotta e cognac, il tutto accompagnato da una birra belga alla ciliegia.

Cosa puoi dire a chef Tomei, un concentrato di idee strabilianti, genialità, sana follia, ironia, intelligenza e competenza. Alcune persone nascono con un dono che si chiama talento, che va assecondato, alimentato, curato nonostante tutto, in barba alle critiche e alle difficoltà, e lui ne è l’esempio. Torno a casa soddisfatta del pranzo e della chiacchierata, conscia di aver nutrito non solo la pancia ma anche il cervello. Indimenticabile.

Puoi seguire chef Tomei su https://www.limbuto.it/ e https://www.facebook.com/LimbutoRistorante

Silvia Mezzanotte: anima e cuore di una grande artista.

Silvia Mezzanotte ha quell’umiltà propria dei grandi artisti: trasuda professionalità e competenza, i suoi racconti sono intrisi di passione per quell’arte che era dentro di lei sin da bambina, nella quale risulta essere una fuoriclasse. Parliamo di una delle voci più belle del panorama musicale italiano, le cui caratteristiche le permettono di spaziare dai successi di grandi donne della canzone al tango di Astor Piazzolla. La ricordo bene a Sanremo con i Matia Bazar: io adolescente ammiravo la sua eleganza, nei gesti e nel look, la sua presenza scenica; l’ho sempre considerata una donna di gran classe.

Sono passati 31 anni dalla sua prima volta a Sanremo, ma è la partecipazione nell’anno 2000 a segnare un nuovo inizio per lei e la seconda vita dei Matia Bazar, prima con “Brivido Caldo”, l’anno seguente con “Questa nostra grande storia d’amore” e la consacrazione, che arriverà con la vittoria del Festival nel 2002 con “Messaggio d’Amore”. Nel 2004 lascia il gruppo per dedicarsi alla carriera solista: da allora sono nati tre album, grandi collaborazioni con Massimo Ranieri, Michael Bolton e Dionne Warwick, un’altra parentesi con i Matia Bazar e un altro Sanremo, il trionfo a Tale e Quale Show e l’apertura della “The Vocal Academy”. Attualmente Silvia è in tour con quattro spettacoli diversi: “La nostra storia” con Carlo Marrale per ripercorrere i grandi successi dei Matia Bazar, “Le mie regine” con brani in sette lingue di cantanti donne che hanno segnato il suo percorso, “Duettango” per omaggiare Astor Piazzolla e il “Summer Tour” che riassume la sua carriera. Grande impegno e grande dedizione per un’artista che di certo non si risparmia.

Da bambina aveva già le idee chiare: voleva fare la cantante, ma era talmente timida che costringeva i suoi genitori ad ascoltarla fuori dalla porta della sua camera. Alla fine, come ha vinto questa timidezza?

“Ci ho messo un sacco di tempo. Avevo la percezione chiara che il canto potesse essere uno strumento fondamentale per me, per farmi stare bene. Era un’urgenza, ma non m’interessava per niente il giudizio della gente quando ero piccola anzi, il giudizio mi spaventava, per cui ho chiuso tutti fuori dalla porta. Lo spettacolo “Le mie Regine” nasce proprio per celebrare quelle donne che quando ero bambina, ragazzina e poi anche adulta, seguivo: leggevo le loro biografie, cercavo di capire anche il loro carattere, non solo la bellezza della loro voce. Ho trovato in loro delle affinità con la mia insicurezza, la mia paura, il mio senso di inadeguatezza. Io non sapevo quale fosse il mio posto nel mondo, quindi il canto era un mezzo attraverso il quale io tiravo fuori tutta quella che poteva essere la mia sensibilità, anzi ipersensibilità. Quando sono diventata più o meno maggiorenne ho capito che era ora di cominciare ad esibirmi, con grande paura, che ho vinto soltanto buttandomi. Quando poi sono arrivata ai 23 anni, addirittura dopo il mio primo Festival di Sanremo, mi sono dedicata alla tecnica, e mi sono accorta che gran parte delle mie insicurezze avrei potuto togliermele prima. Me le sono tolte da grande, e adesso per fortuna sono talmente concentrata anche su questo aspetto della vocalità che ci lavoro in continuazione: ho un’Accademia, quindi gli errori che posso aver fatto io cerco che non li facciano i ragazzi più giovani, che magari vogliono diventare dei professionisti”.

Lei è in tour con quattro spettacoli diversi, in più insegna nella sua Accademia. Cosa trasmette ai ragazzi che seguono le sue lezioni?

“Io ho dei miti che sono le mie grandi donne, le mie regine. Una purtroppo è scomparsa di recente, Raffaella Carrà: una delle cose più importanti che si capiva dal lavoro che faceva Raffaella, ma anche ad esempio Milly Carlucci come altre grandi donne di spettacolo, è la preparazione che c’è dietro, e questo cerco di trasferire. Purtroppo è sempre più di uso comune ipotizzare che basti avere un po’ di voce, un’occasione ed è andata, invece non è così. Trasformare realmente un’occasione in una carriera è molto difficile, perché riuscire a reggere emotivamente e fisicamente i concerti, tutte le problematiche che la mente e il fisico creano sulle corde vocali, sul nostro strumento, che è uno strumento interno che non si può regolare come si accorda un pianoforte e risente di tutto, è piuttosto complicato. Quindi per me prima di tutto viene una certa preparazione attraverso la tecnica, il comprendere realmente chi siamo. I ragazzi più giovani, ai quali sempre più spesso viene richiesto di essere pronti a 18-19 anni, dovrebbero cercare di saper rispondere almeno a tre domande fondamentali: chi sono in questo momento, da dove vengo, quindi quali sono le mie origini, e dove voglio andare. Non è una cosa semplice, spesso occorre essere guidati da persone illuminate, perché io a 18 anni ricordo esattamente che non avevo le idee chiare e forse non le ho chiare nemmeno adesso, quindi quando vedo questi ragazzi buttati allo sbaraglio per loro ho un po’ paura. Questo quindi cerco di trasmettere: preparatevi, cercate di saper rispondere esattamente a queste domande, che significa tirare fuori la propria personalità umana e vocale”.

Uno dei suoi spettacoli si intitola “Le mie Regine”, dove lei reinterpreta brani di cantanti donne che hanno segnato il suo percorso. Se le chiedessi di sceglierne una, la più importante per qualche motivo, chi sceglierebbe?

“E’ molto difficile… forse quella a cui sono maggiormente legata fin da bambina è Mina. Peraltro ho deciso di celebrarla con una delle sue canzoni più iconiche che è “Brava”, ma esclusivamente perché con quel brano ho vinto “Tale e Quale”. E’ stata una specifica richiesta di Carlo Conti, al quale non si può dire di no. Tra l’altro all’inizio la produzione, per metterti a tuo agio, ti chiede quali siano le vocalità alle quali ti senti più vicina, e io ho detto subito: “escludete Mina”. Invece poi è arrivata Mina, ma non solo, è arrivata “Brava” di Mina, con cui ho sudato freddo. Alla fine è andata così bene che ho deciso di portarla con me; siccome è una canzone che non si sente tanto spesso cantare, è diventata certamente una di quelle che mi viene richiesta più spesso. Dico Mina perché è stata una grande icona e lo è ancora, in assoluto però, se c’è una voce alla quale mi ispiro è quella di Ella Fitzgerald per la sua preparazione, la sua tecnica, per la sua capacità di rendere semplici grandissime difficoltà vocali. Ascoltandola sembra stia facendo cose facilissime, invece sono di una difficoltà estrema. Questo è un altro dei miei capisaldi: cercare di far credere che le cose difficili siano semplici”.

Parliamo dei Matia Bazar. Entrare a far parte di un gruppo già famoso non è mai facile, soprattutto per i paragoni con chi c’era prima. Come è riuscita a ricavarsi il suo posto e a fare suoi i grandi successi interpretati in precedenza da Antonella Ruggiero?

“Credo con due cose: l’incoscienza, anche se ero già grande perché avevo più di trent’anni, della serie “mi butto”, e la coscienza di capire che poteva essere realmente l’occasione della mia vita. Inoltre l’incapacità di vivere questo mestiere come una competizione con chi mi ha preceduto e con chi mi segue. Io la competizione ce l’ho esclusivamente con me stessa, e con me stessa sono feroce, mi critico pesantemente. Antonella è una delle mie regine e la celebro con “Vacanze Romane”, l’ho sempre vissuta come una creatura nata per cantare, la cosa più naturale che lei avrebbe mai potuto fare, e l’ho sempre amata visceralmente anche nei percorsi più particolari come quelli che sta seguendo da tanti anni. Questo mi ha permesso di non mettermi in competizione con il passato dei Matia Bazar per fortuna, ma di rispettarlo, di cercare invece di prendere per mano tutti i loro fan e far capire che non c’era nessuna idea di cancellare il passato, tutt’altro, era un modo per rispettarlo. Naturalmente quando sono entrata hanno fatto delle verifiche sulla mia vocalità per cercare di capire se potevo cantare “Vacanze Romane” piuttosto che “Cavallo Bianco” o altri brani: se non avessi avuto queste capacità non sarei stata la persona più adatta. Poi però in quel periodo sono nate “Messaggio d’Amore” e “Brivido Caldo”, canzoni diverse dalla vocalità precedente che erano tutte orientate sul mio timbro. Quindi è stato difficile, ma forse neanche tanto; la difficoltà l’ho più letta nei confronti di tutte le persone che mi dicono “quanto è stato difficile?”. Avevo i fucili puntati contro, ma il mondo Matia per me è sempre stato un tatuaggio sul cuore e lo è ancora, quindi c’è talmente tanto amore, tanto rispetto nei confronti di questa eredità meravigliosa, è la storia della musica leggera italiana che io ci vedo solo cose belle. Ho sentito ogni tanto qualcuno dire che Antonella è meglio di me, ma Antonella è l’icona, lo è anche per me, quindi non vedo perché questa cosa mi debba far male. Lei è stata la prima, ha condotto questa vocalità e queste canzoni in questo mondo meraviglioso, e poi sono arrivata io”.

Tra le tante collaborazioni spiccano quelle internazionali con Michael Bolton e Dionne Warwick: cosa si è portata a casa da queste esperienze?

“Quella con Michael Bolton la ricordo molto bene: è stata una grande emozione per me e lui se n’è accorto: prima di salire sul palco mi ha abbracciata e io gli ho proprio detto “qui realizzo uno dei miei sogni”. La serata che andava in onda su Rai1 dal Canada era “Una voce per Padre Pio” dall’estero: l’intreccio delle due voci cantando “The Prayer” è stato talmente bello e così intenso che tutto il palazzetto si è alzato in piedi. Questo lo ricordo con molta chiarezza. Quella con Dionne Warwick invece è lì nel cassetto: ho conosciuto questa meravigliosa persona che per me è una grandissima icona, è veramente una delle mie regine che si è messa proprio a servizio del progetto, si è aperta nel suo modo di cantare, mi ha dato dei consigli perché le nostre voci potessero fondersi meglio. Il progetto è pronto, ma ovviamente il Covid ci ha fermato perché avrei dovuto festeggiare i miei 30 anni di carriera l’anno scorso a Natale, e lei doveva venire in Italia per far uscire questo singolo e cantare insieme a me in alcuni concerti. Non appena si riapre festeggeremo i 31 anni o i 32, non importa”.

Lei è stata protagonista anche a “All together now”.

“Essere sul muro è stata un’esperienza meravigliosa, perché la sua energia l’ho vissuta come se avessimo tutti una sorta di Avatar che ci teneva collegati, sentivo il muro vibrare. All’inizio nessuno sa di preciso chi c’è nel muro: ci sono persone che si occupano di musica sotto vari aspetti come dj, cantanti giovani, performer, danzatori, produttori. Forse i più giovani non sapevano neanche chi ero, se ne sono resi conto dopo i miei primi interventi, perché vedevano che dicevo delle cose sensate e poi dicevano: “mi alzo, non mi alzo… cosa fa la Mezzanotte?”. E’ stato molto divertente, mi è piaciuto molto e devo dire che in finale sono sempre arrivate delle voci interessanti che molto probabilmente non avrebbero trovato posto nei talent specifici per la discografia e le radio”.

E a proposito dei talent, cosa ne pensa?

“Penso che siano diventati un modo per trovare una strada. Penso che accanto a questi ragazzi così giovani serva qualcuno di illuminato, che gli faccia capire che è un’occasione ma che non è necessariamente quella della vita, quindi se non va bene pazienza. Se poi va bene, devono fargli capire che può durare sei mesi, un anno oppure una vita come è successo per alcuni, ma serve veramente tanta concentrazione su quello che fai, serve fortuna e tanta preparazione. E’ chiaro che anche le case discografiche si sono asservite al mondo dei talent, quindi è un’occasione e vale la pena provarci. Io stessa ho alcuni ragazzi che mi hanno chiesto di partecipare e li ho aiutati a prepararsi, cercando di scegliere con cura le canzoni in modo che avessero la valigia pronta. Poi se il treno passa e sei capace di salire ben venga, quello che posso darti io sono le cose giuste da mettere in valigia”.

Puoi seguire Silvia Mezzanotte su https://www.silviamezzanotte.com/

60 anni di disegni per Bruno Prosdocimi.

Chi non ha mai sfogliato la rivista di Topolino? Chi ricorda le mitiche figurine Panini con le caricature dei calciatori? O ancora chi non ha mai avuto tra le mani una mappa di Gardaland? Queste sono solo alcune delle tante creazioni del genio di Bruno Prosdocimi, che quest’anno festeggia 60 anni di carriera: una vita intensa, costellata di successi, tanti da riempire il firmamento.

Nonostante la sua veneranda età, il Maestro ha lo spirito di un bambino. Si dimostra subito entusiasta quando gli chiedo se posso fargli alcune domande sulla sua storia: “Fantastico! Vieni, sediamoci qui che ti racconto un po’ di cose…” ed inizia subito a parlarmi del suo periodo a Milano con la Mondadori. E’ un fiume in piena, difficile da domare: la moglie Carmen lo richiama più volte all’ordine, ma Bruno è così coinvolgente che non ti stancheresti mai di ascoltarlo.

La caricatura mette in risalto pregi e difetti di una persona: è un compito semplice per lei?

“Non ho mai cercato niente di tutto questo. La caricatura è quello che uno ha addosso: io non cerco di deformare niente, io li vedo così. Non c’è mai stato l’intento di accentuare o fare satira, la mia è una caricatura celebrativa per esaltare un personaggio”.

Oltre agli aneddoti che il Maestro si diverte a raccontare, sono le sue opere a parlare di lui, a descrivere quell’incredibile talento che nonostante tutto lui continua a sminuire. “Questa vita così pazza passa e va, ma noi siamo ancora qui, ringraziando il cielo. La mia è passata da sola, senza che me ne accorgessi”. Se lui non ci ha fatto caso, la gente invece ha ben impresse nella mente le opere del genio. Inizia subito a lavorare a Milano alla redazione di Topolino, disegnando fumetti, personaggi, gadget e giochi, oggetto del desiderio dei collezionisti. Qualche anno dopo nascono le caricature dei calciatori sulle figurine Panini, fantastiche e introvabili. Segue la televisione: prima “Il Musichiere” dove Bruno disegna le canzoni da indovinare, poi “Chissà chi lo sa?” lo vede protagonista con le sue caricature che ritraggono cantanti e attori ospiti del programma. In seguito, il Maestro si concentra sulla sua Verona con i disegni sulla lirica in Arena, i personaggi dei carri del carnevale veronese e la mappe di Gardaland. A tutto questo vanno aggiunti dipinti, serigrafie, ceramiche, scenografie teatrali, pupazzi, cartoline e francobolli.

A proposito di questo, durante il mio incontro con Bruno porto con me il folder del francobollo dedicato a Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, realizzato proprio dal Maestro nel 2020 in occasione dei dieci anni dalla loro scomparsa. Glielo mostro e gli chiedo timidamente un autografo: lui, stupito, mi chiede più volte “ma è tuo?”. Gli porgo la penna e guardandomi traccia un arco: “questa sei tu, vedi? Gli occhi, i capelli un po’ ricci, la bocca grande, ma c’è anche del rosa qui” ed estrae dalla tasca alcuni pennarelli colorati. Termina la caricatura con la sua inconfutabile firma in stampatello su tre righe, e capisco immediatamente di avere tra le mani qualcosa di inestimabile valore.

Come ha capito che la caricatura era il suo destino?

“Sono entrato in accademia dopo aver fatto altri studi, e dopo due mesi era come se avessi frequentato un anno, perché si sono accorti che ero portato. Dicevano che avevo un talento naturale, ma la cosa non mi ha mai fatto nessun effetto, non mi vanto per questo. Adesso ho il rimorso quando sto fermo, perché con questa spontaneità che mi ritrovo, se in alcuni momenti non faccio niente mi sento in colpa”.

Oltre a questo è arrivata anche la televisione.

“Sì, una cosa tirava l’altra. Ho iniziato con la Mondadori, poi Topolino e poi la tv con Il Musichiere con Mario Riva: feci il provino con Garinei e Giovannini, due uomini altissimi, con un viso incoraggiante, mi hanno fatto fare delle cose incredibili senza che io andassi a cercarle. E’ stato un percorso non facile ma spontaneo, non potevo scappare”.

In 60 anni di carriera ha fatto praticamente tutto. Le manca ancora qualcosa?

“Il mio sogno è andare a New York a dipingere il recinto della Statua della Libertà con tutta la storia della conquista dell’Italia, perché si dice che abbiamo conquistato l’America e invece sono stati gli americani a conquistare noi. Sono venuti in Italia il 23 luglio 1943 e lì è cominciato tutto: c’erano i carri armati Patton e quelli vestiti con il Montgomery, poi Ingrid Bergman con Rossellini e il matrimonio di Tyrone Power a Roma. Erano dei personaggi incredibili, e noi qui che li aspettavamo”.

Continua a raccontare Bruno, la sua storia e quella dei suoi tempi, a dimostrazione del fatto che oltre ad essere una persona brillante è anche molto intelligente. Ti rapisce come sanno fare i suoi disegni, opere uniche senza tempo, in una parola eterne.

Lusso, velocità e potenza: in una parola Lamborghini.

Quando si parla di Lamborghini si pensa a qualcosa di perfetto, di inarrivabile, un sogno su quattro ruote, desiderio di molti ma che pochi si possono permettere. Lusso, velocità e potenza sono le sue caratteristiche, ed è per questo che mi ha incuriosito conoscere più a fondo tutta storia. E’ Dimitri che mi accompagna alla scoperta di questo incredibile mondo, raccontandomi aneddoti e spiegandomi minuziosamente le caratteristiche di ogni modello.

Se Lamborghini oggi è un’eccellenza conosciuta in tutto il mondo, il merito lo deve a Ferruccio, già produttore di trattori, che alla fine del 1962 ebbe l’idea di costruire un’auto da corsa potente capace di tenere testa alla già famosa Ferrari. Già, perché Ferruccio era un collezionista di auto e amava la velocità, ed era convinto di poter fare meglio del Cavallino Rampante. Ovviamente molti lo presero per pazzo, sembrava solo un capriccio che gli avrebbe fatto perdere soldi, ma Ferruccio era del segno del Toro, testardo e determinato come pochi: infatti, dopo qualche mese, fondò la società “Automobili Ferruccio Lamborghini” e acquistò un terreno a Sant’Agata Bolognese per costruire una grande e innovativa fabbrica. Lavorava personalmente alle automobili quando i risultati non lo soddisfacevano e pretendeva da tutti il massimo impegno; la prima Lamborghini doveva essere un capolavoro, e infatti alla fine del 1963 nacque la 350 GTV.

Negli anni successivi, seguirono un certo numero di prototipi, delle prove per testare il gusto del pubblico, per cercare di differenziarsi e di farsi riconoscere, ma fu l’incontro tra Ferruccio, Nuccio Bertone e Marcello Gandini a dare vita ad una vera e propria opera d’arte che venne chiamata Miura. Non a caso, questo era il nome di un fortissimo toro spagnolo, animale diventato il blasone della casa automobilistica, simbolo di potenza, tenacia ma anche di cattiveria: guardando la parte anteriore della Miura, sembra di vedere una grande bocca, due corna laterali e addirittura gli occhi con le ciglia. I primi modelli infatti, avevano due grate nere sopra i fari che vennero però rimosse quasi subito per la loro pericolosità in caso di incidente. Ferruccio era uno stacanovista, faceva lavorare gli operai 24 ore al giorno per rispettare le scadenze, e sapeva bene il fatto suo: aveva delle idee geniali anche in fatto di pubblicità. La Miura era già l’auto più bella del mondo, ma pensò bene di parcheggiarne una arancione davanti al Casinò di Montecarlo, attirando una grande folla che bloccò l’intera piazza.

Con la Miura, Lamborghini era diventata simbolo di lusso, di prestigio, di eccesso; osare, essere fuori dagli schemi, queste erano le parole d’ordine. Lo prova la Marzal, guidata dal Principe Ranieri di Monaco con la moglie Grace Kelly per aprire il Gran Premio di Montecarlo del 1967: la prima auto con le porte con apertura verticale, trasparenti come il tetto, con i sedili color argento e il cruscotto fatto di esagoni, modello a dir poco futuristico.

I modelli che seguirono non ebbero grande successo, in quanto i clienti erano affezionati alla Miura, ma l’arrivo della Espada segnò la massima espressione dell’originalità del marchio Lamborghini. Quando venivano lanciati dei modelli “razionali”, con caratteristiche normali, non c’era riscontro da parte del pubblico, che ormai considerava la casa automobilistica innovativa perché sapeva spingersi oltre, più delle altre aziende. La Urraco, la Jota e la Countach sono state grandi protagoniste del pensiero e del genio Lamborghini, fino al 1972 quando Ferruccio, a causa delle agitazioni sindacali di quel periodo, decide di cedere l’azienda.

Non pensate che sia sempre tutto facile: anche i grandi incontrano difficoltà durante il loro percorso. Infatti la crisi petrolifera del 1973 colpisce duramente la produzione di queste auto di lusso, e sfumano anche le collaborazioni con BMW e MTI per la realizzazione di un fuoristrada. Nel 1980 Lamborghini si avvicina addirittura al fallimento e viene messa in liquidazione: verrà acquistata da due fratelli senegalesi che cercheranno di risollevarne le sorti rielaborando i modelli storici. Nel 1987 poi subentra la Chrysler e i motori Lamborghini approdano anche in Formula 1, ma è nel 1990 che arriva la Diablo, un’auto cattiva, spettacolare, eccessiva, come da tradizione.

Incredibilmente l’azienda passa in mani indonesiane per qualche anno, ma nel 1998 inizia la collaborazione con Audi. Arriva così il “pipistrello” Lamborghini, la Murciélago, affascinante, potente, veloce e cattiva: per la prima volta l’azienda produce su ordinazione e i clienti devono prenotare con largo anticipo. Dopo un paio d’anni arriva anche la Gallardo, con una velocità massima che supera i 300 km/h. In occasione poi del 40° anniversario, viene prodotta un’esclusiva Murciélago, cinquanta esemplari numerati di colore Verde Artemis. Degna di nota è anche la Concept S presentata nel 2005 al Motorshow di Ginevra come studio di design, che ricorda chiaramente l’offshore: il prototipo è custodito al museo Lamborghini, mentre l’unico modello esistente è stato prodotto su richiesta di un cliente.

Ci avviciniamo ai giorni nostri con alcuni prototipi come Sesto Elemento, ma è l’Huracan che segna la nuova era delle auto sportive. Nel 2016 poi viene realizzata la Centenario in edizione limitata, per ricordare appunto i 100 anni dalla nascita di Ferruccio, un capolavoro di design e di perfezione, che Dimitri apre apposta per me.

Lamborghini guarda al futuro: nel 2023 lancerà il primo modello ibrido ed entro la fine del 2024 tutta la gamma sarà elettrificata. La Sian fa da apripista nel percorso che porterà alla Full Electric, e questo grande progetto prevede un investimento epocale di 1,5 miliardi di euro. Discuto con Dimitri delle mie perplessità: “dobbiamo seguire l’andamento del mercato e le richieste dei clienti” mi dice. Passatemi il termine: per me un’auto da corsa senza il suo rombo è come un cantante afono, gli manca la sua caratteristica distintiva. Resterà sempre una Lamborghini ma con qualcosa in meno, ed è un peccato.

Puoi seguire Lamborghini su https://www.lamborghini.com

Quintarelli: la tradizione che fa la differenza.

Il panorama che si può ammirare dalla collina di proprietà della famiglia Quintarelli è a dir poco spettacolare: sotto di noi un mare verde di viti e più in fondo i colli veronesi a perdita d’occhio. Capisco subito di essere arrivata in un posto unico: nessuna indicazione stradale, solo una piccola targhetta sul cancello, un viale in salita delimitato dagli olivi che aprono sulla tenuta recentemente ristrutturata.

Lorenzo, nipote di Giuseppe Quintarelli, mi accompagna in cantina e mi racconta la storia della sua famiglia. Il bisnonno Silvio acquista la collina e si rimbocca le maniche per dare inizio a quella che di lì a poco sarebbe diventata una vera e propria eccellenza italiana. Ne segue le orme il figlio Giuseppe, che amplia l’attività mantenendo comunque fede al metodo tradizionale introdotto dal padre. Oggi l’impresa è guidata dalla figlia Fiorenza, mamma di Lorenzo e Francesco, che la supportano nella gestione dell’azienda.

C’è un sentimento che emerge forte dal racconto di Lorenzo: il rispetto. Sembra quasi ci sia un’aura di sacralità, per il modo in cui ne parla, per la volontà di mantenere vive le tradizioni, perché il nonno vive in ogni botte, in ogni bottiglia che ha incartato nelle pagine dell’Arena, nella stanza delle degustazioni, dove lui amava passare il suo tempo. L’uva viene fatta appassire sui graticci di legno, Fiorenza crea ancora a mano le trecce di grappoli che vengono appese al soffitto, riti senza tempo che sottolineano la solennità dell’azienda Quintarelli.

Maestosa la botte dedicata a Giuseppe, intagliata da un artigiano locale, con al centro la Croce di Cristo e ai lati due pavoni, simboli di vita eterna; elegante quella creata per la moglie Franca, cicogna che accudisce le quattro figlie su un albero di melograno, simbolo di abbondanza. Altre botti sono state decorate con scene che raccontano le varie fasi che portano alla nascita del vino. E’ un lavoro di pazienza e di attesa, sembra quasi che qui il tempo scorra più lentamente: passeggiando tra le grandi botti e tra fiasche avvolte nelle pagine del quotidiano L’Arena, il profumo del vino mi inebria e mi ricorda la mia amata Verona.

Giuseppe Quintarelli era produttore di vino in damigiana che esportava in America, ma negli anni ’60 fece il salto di qualità passando ad una produzione di nicchia. Quanto è importante per voi proseguire sulla sua strada?

Fiorenza: “Giuseppe prima affiancava il papà, poi ha fatto il salto dell’esportazione, quindi è importante mantenere questo discorso di nicchia perché siamo una piccola realtà, un’azienda con una produzione limitata”.

Una delle vostre caratteristiche distintive è l’etichetta che sembra scritta a mano. Com’è nata l’idea?

Fiorenza: “All’inizio la produzione era piccola piccola e le prime etichette le scriveva papà, poi c’è stato il passaggio alla scritta nostra di bambine, mantenuta per un po’ di anni. Quando poi la produzione aumentò, non era più possibile fisicamente scriverle tutte, quindi è cominciata la stampa sempre mantenendo questa grafia a mano, sempre su una carta particolare, di colore giallo per richiamare la carta del pane e della carne di una volta”.

Per voi la vendemmia ha ancora il sapore di una volta?

Fiorenza: “La vendemmia è il periodo in cui si concentrano tutte le nostre forze perché è un momento sentito e particolare per noi, sempre sperando che l’annata sia stata buona perché la grandine è sempre in agguato. Comunque è fondamentale perché la nostra vendemmia è lunga, ha più passaggi, è fatta da una selezione certosina delle uve: non si entra in vigna e si raccoglie tutto, si passa più volte”.

Che emozione provate quando aprite una bottiglia storica, magari una di quelle che Giuseppe ha avvolto nel giornale L’Arena?

Fiorenza: “Non capita spesso, diciamo in occasioni importanti. Abbiamo aperto da poco un Tre Terre, un vecchio Recioto del 1980 ed era ancora meraviglioso. Sono vini che per il tipo di appassimento delle uve e per il prolungato affinamento hanno una lunga vita in bottiglia, quindi tante sono ancora notevoli come qualità, con il colore ancora mantenuto. Quelle che abbiamo aperto fino adesso sono risultate essere delle belle sorprese”.

Il vostro Amarone si riconosce tra mille: quell’effetto vellutato al palato, pieno e rotondo, con il profumo di ciliegia, che il giorno dopo non ti lascia stordito. Com’è possibile?

Francesco: “Proviene da un affinamento lungo dove trova un suo equilibrio, una sua intensità, una sua dimensione. Di Amarone ce ne sono di tanti tipi e ci sono anche dei produttori molto bravi. Direi invece che nostro il recioto è più diverso dagli altri, perché sono rimasti in pochi a crederci e a produrlo in un certo modo”.

Lorenzo: “L’Amarone è un vino riservato alle grandi annate: se non rispetta i nostri standard diventa il Rosso del Bepi. E’ una scelta sempre difficile da prendere, ma che in certe annate va fatta”.

La vostra produzione di nicchia ha risentito degli effetti della pandemia?

Fiorenza: “Siamo stati chiusi durante il primo lockdown, però il lavoro interno è continuato perché la campagna va portata avanti comunque. Il vino va controllato, quindi noi abbiamo sempre lavorato. Diciamo che è cambiato un po’ il modo: la gente, non potendo venire qui, si faceva spedire il vino a casa. Adesso sono riprese anche le esportazioni”.

La scelta di non avere un sito internet, di non essere social in un mondo sempre più tecnologico, è un modo per rimanere ancorati al passato e alle vostre tradizioni?

Fiorenza: “In questo momento ci basta così: un po’ per mantenere le tradizioni ma anche perché è la nostra filosofia aziendale. Poi non essendoci molto prodotto, al momento non ce n’è bisogno, poi in futuro si vedrà”.

Concludendo, come vi vedete fra vent’anni?

Lorenzo: “Le cose importanti per il futuro saranno mantenere la più alta qualità del prodotto e la nostra filosofia, portare avanti gli insegnamenti che il nonno ci ha trasmesso, la tradizione”.

Matteo Faben: “Con le mie sculture metto in risalto i difetti delle persone”.

“Sono bravo a mettere in risalto i difetti delle persone. Sembro dispettoso, invece è solo una fascinazione per quel lato che tutti nascondono”.

Questo è Matteo Faben, scultore autodidatta, cresciuto a pane e polvere di marmo, con un grande bagaglio di esperienza acquisita in bottega. “Vedevo che sulle riviste d’arte c’erano sempre dei personaggi che, con dei gran sorrisi, presentavano i loro lavori, così sono emigrato a Carrara, convinto che quella fosse la zona adatta. Ho preso contatti con uno Studio tra i più antichi del luogo, e ho iniziato a lavorare su alcune repliche di sculture classiche antiche e lì ho appreso le quattro fasi del lavoro: sbozzatura, formazione, finitura e lucidatura. Ora ci ritorno per comprare il marmo direttamente in cava perché è importante andare a vedere dove nasce la materia, anche per una questione di rispetto”.

Matteo cammina sul filo dell’anticonformismo, artista stravagante, estroso, talvolta scomodo. “Dopo 30 anni di lavoro del marmo sono sicuro di aver acquisito quello stile che a me piace che è il figurativo-realistico, concettuale, orientato alla cultura e all’evoluzione umana, con una vena di sfacciataggine. Questa credo sia la definizione esatta di me stesso”.

Partiamo da una frase. Hai dichiarato: “sono tutti gelosi degli artisti”. Motivo?

“Gli artisti sono considerati come dei personaggi che fanno quello che gli pare, che si svegliano la mattina e realizzano quello che vogliono fregandosene di come gira il mondo, ed è esattamente così per quanto mi riguarda, sono un ottimista. E’ il grado di sicurezza che uno ottiene che permette di catalizzare su di sé l’attenzione, e questa sicurezza può divenire tale da provocare gelosia”.

Quanto è difficile emergere con la scultura?

“Se parliamo in relazione all’oggetto in quanto tale, nel senso che un quadro lo appendi e occupa poco spazio mentre una scultura è più ingombrante, già c’è una difficoltà perché magari le case non sono abbastanza accoglienti. Il problema principale sta nel fatto che recepire una scultura è come invitare a far propria una forma, cioè implica uno sforzo allo spettatore che deve immaginarsela, invece la forma piatta, la pittura ad esempio, è meno impegnativa. Lo scultore fatica di più secondo me dell’architetto che collabora con costruttori e progettisti, la scultura è difficile perché non tutti hanno la voglia e la capacità di comprenderla”.

Perché proprio il marmo e non altri materiali?

“Perché penso che ogni materia abbia la sua collocazione. Ci sono sculture, opere che vanno bene fatte di legno, altre vanno fatte in vetro, o in terracotta. Il marmo per quanto mi riguarda, per il senso che do alle opere, per i titoli e per i messaggi che voglio trasmettere, penso che sia il top. Non userei altri tipi di materiale perché mi sentirei sprecato e poi un domani lascerò delle opere che sono fatte con materiali ricchi, preziosi”.

Quando devi realizzare un progetto, parti da un disegno o l’idea ti viene guardando un blocco di marmo?

“Il disegno è fondamentale: a volte abbozzo una cosa ma ne esce un’altra e sono comunque contento, ma con il disegno ho quella sensazione tridimensionale del risultato finale”.

Nelle tue opere spesso è presente il movimento (drappi, onde). E’ voluto o casuale?

“E’ voluto, volutissimo anzi. Ci sono forme a drappo, morbide, che cadono, che scorrono, che esplodono, in relazione al fatto di tendere, di andare. Voglio fare sempre riferimento alle limitazioni fisiche umane”.

Qual è l’opera che ti ha dato più soddisfazioni e quale la più difficile da realizzare?

“Credo tutte in percentuale. Non ne ho distrutta neanche una, vuol dire che tutte mi sono piaciute abbastanza. C’è il tema che mi fissa di più, ma non c’è la scultura che mi abbia fermato nel senso di essere arrivato al capolavoro, anche perché il mio pensiero è quello di continuare a migliorare. Per quanto riguarda la difficoltà, con la tecnica che ho raggiunto posso realizzare quello che mi pare, non ho problemi. L’unico ostacolo forse è iniziare: può capitare di avere davanti il blocco da cui ricavare una scultura e non so perché non riesco a dare il primo colpo. L’ispirazione c’è però mi assalgono dei dubbi e non ho ancora capito perché”.

C’è un’opera famosa che ha segnato il tuo percorso?

“In realtà sono due. Un quadro di Michelangelo Merisi “La vocazione di San Matteo” e una scultura in marmo bianco del Bernini “L’estasi di Santa Teresa”: il primo perché il personaggio viene colto nel momento di maggior crisi, la seconda perché lei provava talmente tanto dispiacere per non essere all’altezza che si sentiva come trapassata da una freccia. In sostanza sono i miei due sentimenti base da dove ho iniziato a fondare la mia arte, cioè sentirmi soffocare dai miei limiti che non mi permettevano di realizzare qualcosa, ed essere chiamato a farlo nei momenti più bui”.

Sei un artista del tipo “purché se ne parli”?

“No, perché il mio primo pensiero è realizzare ciò che penso, ciò che provo e che voglio, dopo semmai mi preoccupo dove andrà e che effetto farà. Di conseguenza è impossibile che sia perché voglio che se ne parli, ma se poi funziona in questo modo va comunque bene”.

Hai realizzato una scultura di un busto senza testa che hai chiamato “Primo cittadino”.

“Perché immaginavo un supereroe che tiene sulle spalle e sullo stomaco tutti i pensieri e le preoccupazioni, perché penso che risieda in questa parte la responsabilità più che nella testa”.

Una delle tue opere ha una storia particolare: “Adamo”, il primo uomo, nudo come Dio lo ha creato, è stato collocato davanti alla Chiesa Parrocchiale suscitando numerose polemiche. Tu per tutta risposta, prima l’hai vestito con un paio di boxer e poi l’hai rimosso.

“Il fatto dei boxer era una presa in giro, poi l’ho tolto forse perché non era il caso che restasse lì. Troverà una collocazione diversa, anche se però avendo suscitato tutte queste critiche sarebbe dovuto rimanere in quel posto. Magari fatto a pezzi, preso a mazzate, oltremodo contestato, invece ho dato retta alle pressioni e alle minacce”.

Cosa ti auguri per il futuro?

“Mi auguro di avere delle idee talmente geniali che creino delle contestazioni, delle critiche accese, adatte a luoghi dove tanta gente le possa vedere. Non mi interessa che siano capite subito, anzi preferisco che lo siano un domani. La scultura inizia quando è finita, perché è lì che inizia a dare il suo messaggio”.

C’è un aneddoto del tuo passato che ricordi con piacere?

“La mia maestra delle elementari diceva che ero intrattabile ma “se Matteo vuole, può”. Questa frase mi ha segnato e per questo la ringrazio”.

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