Leopoldo Ramponi: il custode della tradizione veronese.

Amare la propria città è quasi naturale, ma conoscerne la storia, custodirne le tradizioni e portare nel mondo questa passione è un’arte, e il suo massimo esponente a Verona si chiama Leopoldo Ramponi. Presidente dell’Associazione Ristoratori di Confcommercio Verona, da oltre trent’anni è il titolare della Trattoria Al Bersagliere, appena citata da Vanity Fair tra i 10 migliori ristoranti tradizionali del Veneto. Quelle pareti ne hanno di storie da raccontare, pullulanti di foto autografate dai tanti personaggi passati da lì, dai nostri Zucchero, Riccardo Cocciante e Fiorella Mannoia ai mostri sacri come Joe Cocker e B.B. King, ricordi indelebili insieme ai cimeli rari che Leopoldo custodisce con cura, come la chitarra di Rudy Rotta o il volante di Gilles Villeneuve. Ciliegina sulla torta è la storica cantina del 1200 situata al piano inferiore, memoria della Verona antica, le cui spesse mura conservano ancora intatti gli archi delle finestre di quella vecchia casa.

La Trattoria “Al Bersagliere” è un locale storico che ha quasi cento anni: è nato come ristorante di pesce nel 1928, poi lei lo ha acquistato nel 1990 e qualche anno dopo l’ha trasformato nel tempio della cucina tradizionale veronese. Come è arrivato a questa scelta?

“Io amo le tradizioni e con la quarta generazione di ristoratori cerchiamo di fare le cose tipiche e fondamentali che sono la nostra storia e la nostra cultura. Questo era un grande ristorante di pesce, uno dei più famosi di Verona, però io vengo dalla montagna e faccio le mie cose tradizionali. Tra l’altro ho scritto un libro proprio per ricordare i vecchi tempi e le nostre tradizioni”.

Se le chiedessi di fare una classifica dei nostri piatti della tradizione, i migliori o i più conosciuti, quali sceglierebbe?

“Non si può parlare di migliori perché sono tutti differenti. Diciamo che la storia di Verona sono la pearà e la pastissada. Quest’ultimo è un grande piatto: la sua storia ce la racconta il Maestro Giorgio Gioco e risale ai tempi della guerra tra Alarico e Odoacre, mentre io la collego a Ezzelino da Romano che nel ‘200 voleva conquistare Verona, e ci tengo a ricordare che la nostra città non è mai stata conquistata da nessuno. A quel tempo le guerre si combattevano solo dall’alba al tramonto e alla sera, dato che il popolo aveva fame, vista la grande moria di cavalli, si cuoceva la loro carne in un vino un po’ acetico con tanta cipolla, che è un grande disinfettante. Nacque così questo stracotto di cavallo. La pearà è ancora più importante perché è proprio il simbolo di Verona: nasce ai tempi di Re Alboino con Bertoldo, giullare di corte, che fece questa zuppa a base di pane, brodo e pepe per Rosmunda, diventata inappetente dopo essere stata costretta a bere nel teschio del padre. Questa è la salsa base da accompagnare al bollito misto ed è una nostra esclusiva veronese: con la Confraternita l’abbiamo presentata in Portogallo, Spagna, Francia e Germania. Dovevamo andare anche a Londra, ma a causa del Covid abbiamo dovuto rimandare”.

Qual è invece il suo piatto preferito?

“Indubbiamente il baccalà. Uno dei ristoranti in cui ho lavorato era famosissimo per questo: venivano personaggi importanti come Romolo Valli, Renata Tebaldi, perfino Re Baldovino del Belgio, tutti per questo piatto e io mi chiedevo il perché. Così mi sono specializzato nel baccalà che è diventato il mio piatto forte; l’ho presentato anche all’Expo di Milano”.

Secondo lei le tradizioni vanno mantenute al 100% o serve un pizzico di innovazione?

“Io sono per le tradizioni, ma il mangiare di una volta non può essere quello di adesso. Noi oggi abbiamo imparato a fare le cotture, lavoriamo molto meglio e con un sistema completamente diverso: abbiamo i forni a convenzione ad esempio e le pietanze sono molto più leggere. Parlando sempre di tradizione, ho collaborato alla creazione del marchio “Ristorante tipico di Verona”: nato nel 2012, oggi conta 21 locali associati che si impegnano a mantenere le nostre tradizioni. Siamo ristoranti classici con una mise en place normale, senza carta o plastica, dove i camerieri devono parlare almeno una lingua straniera, il 70% dei prodotti deve essere veronese o veneto e il 60% dei piatti deve essere nostro. Pasta e fagioli, bigoli, pastissada, baccalà, bollito, tutti i nostri piatti storici devono essere nel menu”.

Oltre ad essere ristoratore, ha fatto il barman ed è anche sommelier. Fare il vino è un’arte, ma è un’arte anche saperlo descrivere ed abbinare ai piatti giusti…

“Certo. Non voglio fare la figura del saccente: se il cliente chiede io il vino lo spiego, ma ultimamente non lo faccio più perché il 90% si fida e ti dice “faccia lei”. La ristorazione una volta era molto diversa: i clienti oggi sono molto più frettolosi e ci dispiace molto. Purtroppo stiamo imparando le abitudini americane, importiamo gli hamburger, i wurstel e le chips, troviamo troppo cibo nei centri commerciali e non abbiamo più la voglia di fermarci un attimo, di andare in un ristorante, di stare insieme un paio d’ore a parlare tra di noi invece di avere sempre il cellulare sul tavolo. Pensare di fare tutto in venti minuti non è la nostra politica. Chi si siede a tavola deve stare bene, e poi i miei clienti vengono da tutto il mondo e non possono conoscere tutti i nostri piatti tipici, quindi dobbiamo avere il piacere di stare insieme a loro. Gandhi diceva una cosa molto importante: “dobbiamo ringraziare il cliente perché ci dà la possibilità di servirlo”. Da questo si capisce quanto è importante il nostro mestiere”.

Sommelier si diventa solo studiando o serve anche un po’ di talento?

“Prima di tutto bisogna avere il palato: ci sono persone che non sono sommelier ma sono bravissimi con i vini perché hanno un palato straordinario. Ricordo che nel 1980, prima di comprare un vino nuovo lo facevo assaggiare al ragazzo che mi portava il pane: lui di vino ne beveva tantissimo, mi diceva sì o no e non ha mai sbagliato una volta. Poi ovviamente la scuola è molto importante: sapere da dove arriva il vino, che uve ci sono dentro, perché va bene con quel piatto e non con un altro bisogna saperlo, perché il cliente oggi te lo chiede”.

Degno di nota è il libro che Leopoldo ha scritto qualche anno fa con la collaborazione del giornalista veronese Stefano Cantiero e dello chef friulano Fulvio De Santa, un volume ben fatto che è (passatemi il termine) la Bibbia della cucina veronese. “Il gusto della memoria” non contiene solamente 80 ricette spiegate nei minimi dettagli, ma anche le storie di una trentina di prodotti del territorio e dei cinque ambienti simbolo che contraddistinguono la provincia, il tutto corredato dalle meravigliose immagini di Flavio Pettene.

Il libro che ha scritto era un suo desiderio o è arrivato in seguito con il tempo?

“Ci sono voluti cinque anni di studio e tre per la realizzazione del libro. Abbiamo fatto delle ricerche con l’Università di Verona, infatti la prefazione è scritta dal Prof. Marchi: le ricette prima sono state cercate e poi realizzate in cucina, perché abbiamo voluto indicare correttamente le dosi e la quantità degli ingredienti. Diciamo che più che un libro di ricette è un libro di storia del nostro territorio, della cultura e dei prodotti tipici: infatti lo abbiamo diviso in cinque zone ben precise, cioè il Lago, la Lessinia, l’est veronese, la pianura e la città. Quest’ultima è molto importante per le tagliatelle con i fegatini, delle quali parlava Barbarani, e per gli gnocchi. Dal 1450 abbiamo il Papà del Gnocco a rappresentare questo piatto nato in periodo di peste, quando il proprietario di un granaio donò la sua farina che venne mescolata con l’acqua. E pensare che questo miscuglio fino a poco tempo fa veniva usato come colla, mentre allora serviva per sfamare il popolo; è rimasta la tradizione del “venerdì gnocolar”, giorno in cui veniva regalata questa pietanza alla gente”.

Lei è anche Presidente della Confraternita del lesso con la pearà. Com’è nata questa associazione e cosa fa concretamente?

“La Confraternita è nata per scherzo, perché mancava una delle cose più tradizionali di Verona. All’inizio era solo della pearà, ma non aveva senso portarla in giro e presentarla da sola, quindi abbiamo aggiunto il lesso. L’idea è quella di promuovere nel mondo questo piatto, ma è anche un circolo culturale che promuove il prodotto nelle scuole alberghiere e all’Università. Gli iscritti sono tutti appassionati di cucina e ci teniamo a portare avanti questa tradizione anche per i giovani che devono imparare la nostra cultura e la nostra storia”.

Puoi seguire Leopoldo Ramponi su http://www.trattoriaalbersagliere.it/ e Facebook

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