Il panorama che si può ammirare dalla collina di proprietà della famiglia Quintarelli è a dir poco spettacolare: sotto di noi un mare verde di viti e più in fondo i colli veronesi a perdita d’occhio. Capisco subito di essere arrivata in un posto unico: nessuna indicazione stradale, solo una piccola targhetta sul cancello, un viale in salita delimitato dagli olivi che aprono sulla tenuta recentemente ristrutturata.
Lorenzo, nipote di Giuseppe Quintarelli, mi accompagna in cantina e mi racconta la storia della sua famiglia. Il bisnonno Silvio acquista la collina e si rimbocca le maniche per dare inizio a quella che di lì a poco sarebbe diventata una vera e propria eccellenza italiana. Ne segue le orme il figlio Giuseppe, che amplia l’attività mantenendo comunque fede al metodo tradizionale introdotto dal padre. Oggi l’impresa è guidata dalla figlia Fiorenza, mamma di Lorenzo e Francesco, che la supportano nella gestione dell’azienda.
C’è un sentimento che emerge forte dal racconto di Lorenzo: il rispetto. Sembra quasi ci sia un’aura di sacralità, per il modo in cui ne parla, per la volontà di mantenere vive le tradizioni, perché il nonno vive in ogni botte, in ogni bottiglia che ha incartato nelle pagine dell’Arena, nella stanza delle degustazioni, dove lui amava passare il suo tempo. L’uva viene fatta appassire sui graticci di legno, Fiorenza crea ancora a mano le trecce di grappoli che vengono appese al soffitto, riti senza tempo che sottolineano la solennità dell’azienda Quintarelli.



Maestosa la botte dedicata a Giuseppe, intagliata da un artigiano locale, con al centro la Croce di Cristo e ai lati due pavoni, simboli di vita eterna; elegante quella creata per la moglie Franca, cicogna che accudisce le quattro figlie su un albero di melograno, simbolo di abbondanza. Altre botti sono state decorate con scene che raccontano le varie fasi che portano alla nascita del vino. E’ un lavoro di pazienza e di attesa, sembra quasi che qui il tempo scorra più lentamente: passeggiando tra le grandi botti e tra fiasche avvolte nelle pagine del quotidiano L’Arena, il profumo del vino mi inebria e mi ricorda la mia amata Verona.
Giuseppe Quintarelli era produttore di vino in damigiana che esportava in America, ma negli anni ’60 fece il salto di qualità passando ad una produzione di nicchia. Quanto è importante per voi proseguire sulla sua strada?
Fiorenza: “Giuseppe prima affiancava il papà, poi ha fatto il salto dell’esportazione, quindi è importante mantenere questo discorso di nicchia perché siamo una piccola realtà, un’azienda con una produzione limitata”.
Una delle vostre caratteristiche distintive è l’etichetta che sembra scritta a mano. Com’è nata l’idea?
Fiorenza: “All’inizio la produzione era piccola piccola e le prime etichette le scriveva papà, poi c’è stato il passaggio alla scritta nostra di bambine, mantenuta per un po’ di anni. Quando poi la produzione aumentò, non era più possibile fisicamente scriverle tutte, quindi è cominciata la stampa sempre mantenendo questa grafia a mano, sempre su una carta particolare, di colore giallo per richiamare la carta del pane e della carne di una volta”.


Per voi la vendemmia ha ancora il sapore di una volta?
Fiorenza: “La vendemmia è il periodo in cui si concentrano tutte le nostre forze perché è un momento sentito e particolare per noi, sempre sperando che l’annata sia stata buona perché la grandine è sempre in agguato. Comunque è fondamentale perché la nostra vendemmia è lunga, ha più passaggi, è fatta da una selezione certosina delle uve: non si entra in vigna e si raccoglie tutto, si passa più volte”.
Che emozione provate quando aprite una bottiglia storica, magari una di quelle che Giuseppe ha avvolto nel giornale L’Arena?
Fiorenza: “Non capita spesso, diciamo in occasioni importanti. Abbiamo aperto da poco un Tre Terre, un vecchio Recioto del 1980 ed era ancora meraviglioso. Sono vini che per il tipo di appassimento delle uve e per il prolungato affinamento hanno una lunga vita in bottiglia, quindi tante sono ancora notevoli come qualità, con il colore ancora mantenuto. Quelle che abbiamo aperto fino adesso sono risultate essere delle belle sorprese”.


Il vostro Amarone si riconosce tra mille: quell’effetto vellutato al palato, pieno e rotondo, con il profumo di ciliegia, che il giorno dopo non ti lascia stordito. Com’è possibile?
Francesco: “Proviene da un affinamento lungo dove trova un suo equilibrio, una sua intensità, una sua dimensione. Di Amarone ce ne sono di tanti tipi e ci sono anche dei produttori molto bravi. Direi invece che nostro il recioto è più diverso dagli altri, perché sono rimasti in pochi a crederci e a produrlo in un certo modo”.
Lorenzo: “L’Amarone è un vino riservato alle grandi annate: se non rispetta i nostri standard diventa il Rosso del Bepi. E’ una scelta sempre difficile da prendere, ma che in certe annate va fatta”.
La vostra produzione di nicchia ha risentito degli effetti della pandemia?
Fiorenza: “Siamo stati chiusi durante il primo lockdown, però il lavoro interno è continuato perché la campagna va portata avanti comunque. Il vino va controllato, quindi noi abbiamo sempre lavorato. Diciamo che è cambiato un po’ il modo: la gente, non potendo venire qui, si faceva spedire il vino a casa. Adesso sono riprese anche le esportazioni”.
La scelta di non avere un sito internet, di non essere social in un mondo sempre più tecnologico, è un modo per rimanere ancorati al passato e alle vostre tradizioni?
Fiorenza: “In questo momento ci basta così: un po’ per mantenere le tradizioni ma anche perché è la nostra filosofia aziendale. Poi non essendoci molto prodotto, al momento non ce n’è bisogno, poi in futuro si vedrà”.
Concludendo, come vi vedete fra vent’anni?
Lorenzo: “Le cose importanti per il futuro saranno mantenere la più alta qualità del prodotto e la nostra filosofia, portare avanti gli insegnamenti che il nonno ci ha trasmesso, la tradizione”.