Incontro Galliano dopo un periodo difficile per la ristorazione: la voglia di ripartire è tanta, tutto lo staff ne sente la necessità. Il cibo è gioia, appaga il corpo e lo spirito, ma quando incontri uno chef come lui, così attento alle materie prime, alla loro lavorazione, che racconta al cliente tutta la storia che c’è dietro ad un piatto, capisci che in realtà c’è molto di più e non puoi non apprezzare il suo lavoro.
Mi chiamano in cucina: tre chef mi accolgono come fossi di casa. Hanno appena creato un nuovo piatto per il quale attendono l’approvazione del capo. Nel frattempo mi raccontano aneddoti del loro lavoro, e subito traspare competenza e professionalità. Ascolto impressionata, e mi rendo conto di quanta fatica ci sia dietro, di quanto poco apprezziamo il “dietro le quinte” limitandoci, come clienti, a deliziare il nostro palato.
Diventare chef era il tuo sogno da bambino?
“Diciamo di sì. Ho un ricordo di quando avevo 4-5 anni: l’ovetto sbattuto con lo zucchero, una sorta di zabaione che mi faceva sempre mia mamma. Stando in cucina con lei, con le mie nonne, con mia zia, vedendole cucinare, è nato tutto così. Quando è arrivato il momento di decidere che scuola fare dopo le medie, ho iniziato ragioneria su insistenza di mio padre, un anno in cui non ho prodotto niente, poi su insistenza mia papà ha ceduto e mi ha iscritto alla Scuola Alberghiera a Bardolino. Era il 1984, la scuola durava tre anni e alla fine del primo ho iniziato subito a fare le stagioni, anche lontano, la prima a Madonna di Campiglio. In realtà il mio sogno da bambino era andare a pesca, ma una volta realizzato che con la pesca sportiva non si sopravvive, sono andato a fare il cuoco”.
Quanto sono importanti le materie prime per la realizzazione dei tuoi piatti?
“Adesso sono fondamentali, però c’è stato un percorso: ho iniziato a fare questo lavoro quando l’importanza della materia prima non era essenziale. Parliamo di metà degli anni ’80: era appena arrivata la nouvelle cuisine, onda che è durata qualche anno fino ai primi anni ’90, che andava a dare una spallata ad una cucina molto più classica, quella degli anni ’70-’80, una cucina opulenta (scaloppina al limone, filetto al pepe verde, pennette al salmone). La nouvelle cuisine era una ventata nuova, che poi è stata anche denigrata, però in realtà portava già delle novità: c’era un’attenzione all’impiattamento, all’estetica e anche alle proporzioni delle cose, mancava ancora però nella ristorazione di base questa attenzione alle materie prime. Nel corso degli anni il tuo percorso di porta pian piano a ricercare, ad andare oltre alla materia prima. Adesso io ritengo di essere soddisfatto quando arrivo a conoscere personalmente chi produce la cosa, e spesso ci riesco lavorando con prodotti locali. Questo per me è un valore grande, il valore aggiunto: sapere chi fa le cose, vedere le sue mani, come lavora, capire, parlare con lui. Questo è fondamentale soprattutto quando vai a vendere e a proporre”.



Quali caratteristiche deve avere un piatto per essere aggiunto al tuo menu?
“Io dico sempre che un piatto perfetto dovrebbe essere composto da tre ingredienti: una base, un elemento caratterizzante e il tocco, a meno che non sia un piatto che deve rispecchiare per forza una certa tradizionalità. Ad esempio uno dei nostri piatti famosi, il classico risotto della tradizione veneta o del basso veronese, fatto con polpa di maiale tagliata a coltello, cotta nella pentola di rame, è un piatto che ha 100-200 anni, non saprei. La ricetta è immutata da generazioni e assolutamente non va toccata, nasce così e deve restare così. Altri piatti possono essere aggiornati, rivisti, comunque sono tre le cose su cui ci si deve concentrare. La cucina fatta di troppe interpretazioni a volte stona: o dall’altra parte c’è un mago di cuoco, un artista, sennò si rischia sempre di scimmiottare i grandi o di creare dei grandi pastrocchi”.
C’è un piatto che ti ha dato grandi soddisfazioni e uno che sogni di realizzare?
“Quello che ricordo volentieri è un risotto: avevo 25 anni e l’avevo chiamato Risotto dei Monti Lessini perché interpretava secondo me un territorio, che sentivo mio come veronese. All’interno aveva Tartufo Nero della Lessinia, Monte Veronese stravecchio e Spumante Durello, che andava a bagnare il riso durante la cottura. Questo piatto, che ho presentato ad un concorso a Isola della Scala, con mia grande delusione non fu selezionato per la finale. Io volevo vincere perché secondo me era un piatto fantastico, ma in compenso ottenni un premio dedicato al territorio che fu istituito in quell’edizione. Forte di questo premio, scrissi una lettera al Consorzio del Durello per metterli a conoscenza della mia creazione, e il Direttore Aldo Lorenzoni mi volle a tutti i costi portare in giro. Da lì tre edizioni del Salone del Gusto con la Camera di Commercio di Verona nello stand della Regione Veneto, poi varie fiere a Milano, nelle Marche, e il mio risotto divenne bandiera del territorio. Oggi è un piatto visto e rivisto, ma all’epoca eravamo all’inizio del percorso della territorialità, del “Km zero”. Per quanto riguarda le nuove realizzazioni, non sono uno che crea da zero: nel piatto ricerco l’equilibrio, l’aspetto tecnico, le cotture, questo secondo me è perfezione. Assemblare per il semplice gusto di farlo ha poco senso. Sogno un spaghetto al pomodoro fatto bene, che è la cosa più difficile da fare”.




La parola d’ordine della tua cucina è “ricerca”. Come trovi i prodotti migliori? Parti all’avventura o ti fai consigliare?
“C’è sempre un aspetto “culturale”: non si inventa niente, è già tutto creato, è tutto di fronte a noi, bisogna solo dire “questo prodotto merita, questo produttore ha creato qualcosa”. E’ necessario andare un po’ oltre all’aspetto della denominazione: possiamo parlare di Prosciutto di Parma, però sono tantissime le sfaccettature che stanno all’interno, partendo dalla provenienza delle carni o dai sistemi di stagionatura. Cerco l’originalità e la professionalità da parte del produttore. Internet aiuta tanto: a volte consulto dei siti, sono incredibilmente curioso, appena vedo una cosa che non ho mai provato la compro. Mi obbligo a farlo perché è giusto che sia così, questo crea interesse”.

Sei più chef tradizionale, innovativo o un mix di entrambe le cose?
“Tradizionale, perché in realtà scappo un po’ dalle modernità della televisione. Mi spaventano un po’ le nuove leve che arrivano al nostro lavoro alle prime armi, i ragazzini che hanno fatto la scuola alberghiera, che pensano che fare un piatto come l’ha fatto Cracco in televisione sia un po’ far cucina. In realtà non è così: bisognerebbe partire imparando tutti i tagli delle patate, imparare a fare la pasta e il pomodoro buono, capire cosa vuol dire qualità. La televisione ha un po’ drogato tutto questo ambiente. Se poi parliamo di innovazione, questa sta nel reinventarsi tutti i giorni, nel non accontentarsi mai, nell’essere molto critici. Mi spaventano anche i cuochi che pensano di aver fatto un bel piatto, perché per me un piatto ha sempre un difetto”.
Siamo negli anni del boom della cucina: grandi chef che approdano in tv, canali a tema, appassionati che sfondano sul piccolo schermo con i piatti della loro tradizione. Se avessi anche tu la possibilità di entrare in questo mondo, cosa porteresti?
“Un percorso meno da effetto scenico: un buon piatto della tradizione realizzato tecnicamente bene è già un piatto moderno. Io ho la fortuna di avere un confronto diretto con la clientela, per cui quando realizziamo qualcosa io capisco subito se il piatto va bene o va male, se deve essere aggiustato, te ne rendi conto con l’esperienza nel giro di poco tempo. Ci sono dei piatti che nascono bellissimi e buonissimi ma che nessuno ordina al ristorante”.
I grandi chef aprono ristoranti in giro per il mondo quasi fosse una cosa normale, ma quanto è difficile aprire e portare avanti un ristorante e soprattutto conquistare la clientela?
“La ristorazione vive di equilibri e di meccanismi che non sono sempre facili da capire, però io dico sempre che quando uno chef decide di aprire un locale dovrebbe porsi delle domande. Se gestisce anche il locale deve saper pianificare benissimo l’azienda: è importante trovare l’equilibrio, perché è giusto creare delle situazioni per accattivare la clientela, ma alla fine come tutte le aziende deve stare in piedi. Per più di vent’anni io sono stato chiuso in cucina, e soffrivo tantissimo perché impiegavo tempo, energia, cultura per preparare qualcosa e poi il cameriere di turno portava il piatto al cliente in sala e finiva tutto lì. Il vero ingrediente vincente in un piatto si chiama valore aggiunto: è l’atmosfera, è come presenti il piatto, come dai le spiegazioni, come lo contestualizzi, perché anche il miglior piatto portato ad una clientela ignara che viene solo perché ha fame, quando glielo metti davanti è buono e basta. Quando sono andato in sala e ho iniziato a girare per i tavoli, ho insistito molto su questo aspetto: dico sempre ai miei ragazzi in sala che ci sarà sempre qualcuno più bravo di noi, ma la nostra unicità sta nel fatto che sappiamo dare una presenza anche fisica dove andiamo a spiegare le cose, andiamo ad accogliere, è un valore che nella ristorazione avrà sempre maggior peso”.
Già. Quanto è bello ascoltare Galliano mentre ti racconta la storia della Tarte Tatin o della Pavlova, quando ti porta nei luoghi dove viene allevato il bestiame o nei vigneti in giro per l’Italia, un vero e proprio viaggio con la mente tra storia e tradizione.
Ultima domanda: gli chef devono soddisfare i gusti di tutti, ma si parla poco dei gusti dello chef. Qual è il tuo piatto preferito?
“Mangio tutto per definizione, non mi limito davanti a niente. A volte si mangia più con il contesto e con il cervello: una fetta di pane buono con un filo d’olio e uno spicchio d’aglio, servita su una terrazza che guarda il mare di Sorrento è il piatto più buono del mondo. Noi dobbiamo dare da mangiare al nostro cervello, non alla pancia. Comunque la mia merenda perfetta è schüttelbrot, speck tagliato a cubetti e gewürzgurken al cumino”.
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